ANTOLOGIA CRITICA

3 giugno 1958

Giornale di Brescia 

e.c.s. (ELVIRA CASSA SALVI), «Giornale di Brescia»

Alla Galleria Alberti si affollano per un ultimo convegno prima dell’intermezzo estivo immagini varie e multiformi della «pittura bresciana d’oggi». Si tratta di un gruppo di pittori non riuniti tra loro da nessuna comunanza né di tecnica né di scuola, appartenenti alle generazioni giovani e giovanissime.

Il loro raduno che non può e non pretende certo esaurire il panorama dell’arte locale, permette tuttavia uno scorcio interessante anche, se approssimativo, sulle tendenze e sulla vitalità dell’ambiente pittorico cittadino. E può costituire una buona occasione di dialogo e di scambio, utile a stimoli e suggestioni reciproche, come impulso di approfondimento culturale e di autocritica.

Tra i presenti sono rappresentate tutte le tendenze; dalle figurative, tradizionali e poi cubiste, fino alle non figurative.

Sarebbe azzardato e inopportuno voler trarre dei consuntivi, ma certamente la constatazione si impone che nella vita, un tempo più appartata e calma della provincia, i fermenti inquieti e le esigenze dinamiche della spiritualità contemporanea hanno insinuato il loro pungolo.

Se non si può parlare di una caratteristica o di un’inclinazione comune che dia un’impronta particolare e distintiva di regione ai nostri artisti, essi mostrano un eclettismo moderato che li fa partecipi di un clima più vasto.

Anch’essi sono più o meno direttamente implicati in un moto esteso e largo di ricerca al di fuori del quale la vita ristagna. La realtà si evolve e muove, anche nel campo dell’arte e già sulle ultime correnti di ieri arriva l’onda nuova, cui si affidano soprattutto i giovani, giovani d’animo o d’anni, con tutte le promesse e le incognite di domani.

Proprio da parte dei giovanissimi sono alcune delle sorprese più interessanti, in quanto più inaspettate di questa mostra. Ma nell’insieme è un vivace contrappunto di voci, in cui ognuna può acquistare per contrasto, un risalto maggiore.

Fin dal primo ingresso si impongono con forza inattesa, torve e cupe ma vigorose le fìgure di Iros Marpicati (Il contadino che beve, Giovane contadina che beve) uno dei più giovani espositori. Esse affiorano da un viluppo oscuro di tenebre e di famelico furore con membra enormi e pesanti da «prigionieri» che si divincolino sotto le catene. La suggestione sironiana non toglie a queste evocazioni d’ombre buie una drammatica intensità e originalità di concezione, che le carica di un peso simbolico e allusivo: araldi foschi e quasi minacciosi di un mondo tragico della miseria e della fisicità elementare.

12 marzo 1959

Giornale di Brescia 

e.c.s. (ELVIRA CASSA SALVI), «Giornale di Brescia»

La strada aperta alla pittura d’oggi è questa che Iros Marpicati ha preso a battere, e che è già in grado di documentare con tanta incisività in questa sua prima mostra personale alla Galleria Alberti. Prima mostra che ha qualche cosa di non comune, anzi si potrebbe dire senz’altro di eccezionale per l’unità, la coerenza, la forza con cui il giovanissimo pittore s’inserisce, con una personalità propria e decisa, nel vivo della dinamica artistica contemporanea. Egli non annaspa e non divaga; non si disperde in esperienze eclettiche; anzi si colloca esattamente e con slancio sicuro al punto cruciale e nevralgico dell’arte d’oggi, là dove le forze più vive urgono con esigenza incalzante di sbloccare la pittura dagli ingorghi e dai ristagni, verso un’espressione più compromettente e umana.

Marpicati ha ventitré anni e prima d’ora lo si era incontrato – già con lieta sorpresa – alla collettiva del giugno scorso nella stessa Galleria Alberti. Mario De Micheli che lo presenta con autorità ed efficacia ne indica la collocazione approssimativa: l’espressionismo. Indicazione esatta senza dubbio; così ai limiti e ai correttivi che il De Micheli suggerisce a meglio indicare i tratti della sua poetica, val la pena di dar qui ancora una volta rilievo al significato di questo ritorno espressionista che occupa ormai così vasto campo nella pittura recente. Esso indica innanzitutto il rifiuto da parte dei giovani di accettare le lusinghe dell’evasione estetizzante e decorativa, di subirne i limiti formalistici, dopo averne accolto tuttavia il significato antiaccademico.

Nella reazione di molti giovani d’oggi all’astrattismo c’è qualcosa di assai vicino alla reazione sviluppata a suo tempo dagli espressionisti e dai secessionisti contro l’accademia raffinata dell’impressionismo. Ora come allora al centro dell’interesse poetico ritorna l’uomo, l’espressione umana, il mondo umano: il dolore, la sofferenza dell’uomo e delle cose.

D’altra parte tra questo neo-espressionismo e il neo-realismo tuttora in breccia il rapporto non è forse in tutto dissimile da quello intercorso allora tra i primi “secessionisti” e l’espressionismo dei Munch, dei Nolde, dei Van Gogh, ecc.

Se si guardano le pitture di Marpicati l’incrocio di espressionismo e realismo prende l’aspetto e il significato di un appuntamento cui giungono fatalmente i due movimenti sottrattisi in tempo agli incantesimi dell’astrattismo. Qui, come in altri giovani che lo hanno preceduto, la tendenza all’informale è non tanto un’apertura poetica, quanto una minaccia di dispersione, di sregolatezza; è ben lungi dall’essere una terra promessa di liberazione e di catarsi.

Se alcune immagini di Marpicati raggiungono una stilizzazione concentrata e simbolica che potrebbe indurre a ricordare per tangenza certo calligrafismo astrattista di ascendenza tra nordica e orientale, in realtà la tensione drammatica che urge entro queste figure non ha né speranza né volontà di distaccarsi in emblema puro, di sciogliersi in felicità di gioco. Si sente che essa è vincolata ai limiti dell’umano e lì soltanto trova la forza della sua espressività.

Perciò nei quadri di Marpicati (come in quelli di altri esponenti dei gruppi milanesi già qui incontrati: un Gasparini, un Luporini, un Romani-Adami), il significato contenutistico della rappresentazione conserva tutto il suo peso realistico, umanistico: quelle mani che nascondono il volto, quei visi battuti da luci spettrali e rivolti verso l’alto in cerca di una liberazione, quelle membra ossessionanti, in primo piano, quasi ingrandite dalla miseria e dalla fatica; quei fiori già turgidi di colore e di semenza, ora invece bruciati, carbonizzati, risecchiti, appena tocchi da un caldo ricordo del colore, come da un’ultima favilla di un rogo; quella siepe sfrondata dal gelo, tragica come un reticolato di fili spinati; quei gelsi mozzi, enormi, contratti nell’orrore, neri e cupi come mostri.

L’informale qui interviene solo ad aiutare la crescita dell’immagine ai limiti del simbolo, ma non la dissolve mai – ne è ben lungi – nella dimenticanza della sua origine, del suo movente realistico e nel culto narcisistico della pura forma.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 11 e 12 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

14 marzo 1959

L’Unità

m.d.m. (MARIO DE MICHELI), «L'Unità»

Alla Galleria Alberti di Brescia (via Ugoni 9) espone il pittore Iros Marpicati. E’ un giovane artista alla sua prima “personale”. Marpicati possiede un talento sicuro e la sua pittura dimostra una capacità di impostare sempre con fantasia e con buon intuito l’immagine figurativa. Egli ha pure il senso della grandezza e della drammaticità delle cose, nonché un modo largo e sintetico di esprimersi. Per queste ragioni dipinge volentieri la figura, rivelando un disegno energico e senza incertezze. Questa maniera ampia di vedere la conserva pure nel paesaggio, che non è mai descrittivo, bensì ricco di impulso ed enunciato con vigore, senza inutili dispersioni.

Marpicati è un pittore di sentimento; è sempre da un centro sentimentale, infatti, che si svolge il motivo del quadro. Si può forse parlare per lui di una forma di realismo romantico, cioè di un realismo permeato di slancio emotivo. Ciò che egli deve fare adesso è di approfondire i termini del suo discorso, per portarli ad una evidenza espressiva che elimini talune sommarietà. Marpicati comunque può fare questo, poiché è in possesso della materia prima su cui un artista può lavorare con perseverante fiducia.

14 marzo 1959

La voce del popolo

LORENZO FAVERO, «La Voce del Popolo»

La scorsa settimana abbiamo annunciato la mostra di Iros Marpicati alla Galleria Alberti.

La mostra personale del giovane artista rimarrà aperta sino al 16 marzo.

C’è un momento nella vita dell’uomo, è il momento evolutivo della prima giovinezza, in cui intervengono fenomeni che i moderni hanno chiamato “complessi”; tali “complessi” ci indirizzano ad un “atteggiamento”: nella situazione dell’uomo-artista l’atteggiamento equivale a un’impostazione etica ed estetica che va riferita pur sempre alla sua natura fisica, intellettiva e spirituale: l’atteggiamento asseconda quella particolare natura; talvolta ad essa reagisce .

Per Iros Marpicati, ad esempio, ci sembra che l’arte sia nata in contrapposizione alla sua natura. Egli ha scelto subito l’espressione della forza: cosi ci sembra, perché da qualche anno seguiamo la pittura di questo giovanissimo. Quando abbiamo conosciuto, pochi giorni or sono, l’autore, la gentilezza dei suoi modi e l’aspetto suo delicato e ascetico ci hanno sorpreso. Egli veramente occulta quella sua veemenza, quella sua irruenza interiore. Si comprende tuttavia di aver dinnanzi un giovane serio, preparato, volitivo.

lros Marpicati ha frequentato la «Carrara» di Bergamo ed è stato allievo di Achille Funi: ora ha lo «studio» a Milano.

Marpicati tende alla pittura monumentale: le nature morte, i fiori, il frammento di paesaggio. Tutto ciò che vede egli sente di dover ricreare in forme espanse; la sua pittura potrebbe suggerire l’urlo del recluso verso lo spazio. Ma questo bisogno di libertà e di respiro é frenato, è disciplinato da un autodominio che soverchia quella specie di anarchia mistica, quell’impazienza lirica, quella resistenza alla coercizione del metro e del limite.

Iros Marpicati ha dimostrato, con questa sua prima mostra personaIe, di saper mortificare sé stesso.

Valido disegnatore, sente anche fortissimamente il fascino della tavolozza, che ha adoperato con una generosità, con una prodigalità quasi fremebonda in aree vastissime, dove i gialli e i vermiglioni danzavano chiassosi sui verdi permanenti in un intrico di spatolate alte sulla tela alluvionata di colore. Questi sfoghi pittorici quasi sensuali hanno appagato l’artista che, in fase di resipiscenza e di contrizione, oggi si chiude nella cella dove non filtra che luce lattiginosa a vincere faticosamente le tenebre. Questa mostra… penitenziale è stata «voluta» cosi dall’artista, poiché egli sente di dover attraversare anche questa esperienza. Deposto il mantello policromo, ha raccolto un saio nero; allontanata la girandola infuocata dei più accesi colori ha «punito» la sua tavolozza concedendole soltanto biacca e nero, come al penitente pane ed acqua. In questo compiacersi di povertà assoluta di mezzi Iros Marpicati ha preparato la sua prima mostra personale. Ma nella stesura del colore, in quel frappare tra bianco e nero, in quei grigi argentini alternati ad angoli tetri ed a fulgori improvvisi di biacche, voi avvertite che nulla si è perduto del «colorista» allucinato di ieri; vorremmo anzi dire che l’esperienza trascorsa incalza ora questa parvenza di monocromatica e che il protagonista è lasciato ancora al colore più che alla forma.

Il disegno è tuttavia presente: certi rapidi e quasi dissimulati accenni alI’osteologia (nelle macilente figure del poverame), gli «sbattimenti» di luce sui visi modellati con sintesi, lasciano capire la conoscenza di lros Marpicatl. In questi quadri è evidente anche il desiderio di fare del «luminismo»; ci piace di constatare che il Marpicati pur non insensibile alla bufera espressionistica del nord, non ha accettato per sé i barbarismi teutonici, preferendo se mai ripensare l’impetuoso ma latino mondo caravaggesco e, se vogliamo discendere sino a noi nella storia dell’arte, la monumentalità Sironiana. Concludiamo esprimendo la viva speranza che questa mostra annunci una nuova e forte personalità nel campo dell’arte nostra.

14 marzo 1959

Corriere Lombardo

FURL., «Corriere Lombardo»

Una mostra di indubbio interesse è quella presentata in questi giorni alla Galleria Alberti. E’ la prima «personale» di Iros Marpicati, un giovane pittore bresciano che, nato a Ghedi, ha frequentato i corsi dell’Accademia Carrara di Bergamo (e gli è stato maestro Funi) e tiene ora studio a Milano.

Già partecipante a numerose mostre collettive, Marpicati ha vinto un premio alla Mostra Nazionale del bianco e nero di Muggia e si è brillantemente piazzato al “Suzzara”.

Evidentemente ci si trova dinanzi ad un artista di singolare personalità.

Nelle diciotto tele presentate (come dire la produzione dell’ultimo trimestre), Iros Marpicati nulla concede al gioco coloristico, al lezio della composizione, alla formuletta sofisticata cui s’aggrappano molti giovani artisti velleitari d’oggidì.

Marpicati ha scelto decisamente la strada più difficile, senza fronzoli e senza orpelli, di un espressionismo a tutta prima sconcertante ma che si palesa, a più pacata osservazione, di eccezionale vigore.

Bianco, grigio, nero: soltanto su questi tre colori ed i relativi mezzi toni, il pittore ghedese sa ricreare una compiuta atmosfera drammatica in tutti i suoi temi, sia che piazzi il cavalletto fra girasoli, siepi invernali e gelsi abbattuti, sia che si rivolga alla figura umana, alle contadine della sua pianura, sia infine che attinga ai traguardi più poetici delle tre «Invocazioni» (e qui appunto l’artista scaccia nel visitatore anche il più remoto sospetto di «bluff», rivelando la sostanziosa preparazione classica e la solidissima base del suo disegno accademico).

Non riteniamo che per Iros Marpicati si debba rispolverare quel «nemo propheta» che in definitiva condanna i concittadini ad un verdetto di indifferenza, di incompetenza o peggio, d’ingratitudine: siamo certi invece che i bresciani si accorgeranno ed apprezzeranno questo giovane pittore anche se espone in «patria».

19 marzo 1959

L’Italia

F.C., «L'Italia»

Un altro pittore di forza emotiva e costruttiva è Iros Marpicati, presente alla Galleria Alberti, che ha voluto a propria disposizione le più ampie dimensioni per creare i personaggi dei suoi quadri, siano essi figure umane, espressionistiche nella deformazione, fatta per dare maggior impulso e pienezza alla loro caratterizzazione, siano alberi – nudi, tozzi, aggrovigliati e scuri come dopo la ferita di un fulmine – siano fiori, infine, senza leggiadria e leziosità ma presi nel loro momento di distruzione, di termine. Eppure non esiste angoscia soltanto, nella scura tavolozza del giovane Marpicati, bensì un colore nuovo, una ricerca oltre la disperazione, perché ogni dolore, ogni distruzione preludono un’alba nuova (e l’alba è presente nelle luci che fanno da contorno, da fondale al primo piano di ogni opera del giovane).

Anche alla «Saletta» espone un giovane: Giuseppe Ricci, forse meno dotato degli altri due pittori sopraccennati, ma anche indiscutibilmente aperto alla conoscenza che gli altri hanno già appresa, per esperienza nel caso di Cantoni, per cultura nel caso di Marpicati.

6 maggio 1961

La voce del popolo

LORENZO FAVERO, «La Voce del Popolo»

L’inquietudine di Iros Marpicati, il… «trasformismo» della sua pittura che ad ogni mostra tende a strappare l’esclamazione della meraviglia, ha pur sempre in sé qualche cosa di psicologicamente coerente. Se non fosse, il nostro giovane pittore, italiano, si potrebbe parlare di «sturm und drang», tanta è sempre stata l’ambizione di Marpicati di esplodere nella colossalità, nell’impetuosità e nell’urlo. Noi lo abbiamo sempre approvato e incoraggiato, fin da quando, poco più che adolescente, ne notammo l’insolita vigoria nelle prime nature morte, di quando dipingeva su tele vaste come pareti gli enormi girasoli consumando per ogni pennellata interi tubetti di colore; il colore era violento, esaltato come in un protervo tentativo di soverchiare l’allucinata atmosfera di Van Gogh. Quello «sfogo» era seguito a un precedente periodo di monocromi e foschi dipinti. Da molto tempo Iros Marpicati ha bandito dalla tavolozza i colori mantenendo solamente il bianco e il nero; ma anche nell’accostare la biacca al nero egli si propone di evitare gli impasti dai quali potrebbe uscire una qualche sfumatura di grigio che, fra il bianco e il nero stabilirebbe la chiave per un accordo pittorico.

Questo modo di stagliare deciso e pulito le campiture bianche e nere servì subito al pittore per un’arte figurativa che poteva dare, al primo sguardo, l’impressione di enormi ingrandimenti di «contro luce» fotografici. All’aeroporto di Ghedi abbiamo riveduto un gelso vigorosamente profilato su di un fondo di biacca abbacinante come il cielo invernale. Quella medesima tecnica serve ora al Marpicati per dipingere quadri senza nome, elementi, macchine misteriose che tutto e nulla ricordano, e stanno fra la creatura meccanica e l’insetto mostruosamente ingrandito: è la vita che vibra nell’elemento organico e naturale e in quello pulsante della metafisica dei motori creati dall’uomo, audacemente contrapposto o piuttosto intelligentemente inteso a far ripetere alle sue creature in subordinata analogia, il moto degli esseri viventi.

L’arte del Marpicati è e non è pittura, è e non è forma, e possiede qualche cosa che sgomenta, che incombe come un sogno ossessivo.

6 maggio 1961

L’Italia 

«L'Italia»

All’«Alberti» il bresciano Iros Marpicati. Anche se abitualmente egli vive ed opera a Milano, è restato fedele alla sua città, presentando puntualmente ai locali amatori d’arte le opere di ogni suo «passaggio» artistico.

Presentato da Giorgio Kajsserljan, Marpicati – nella sua più recente produzione – ha assunto nuovo vigore.

La geometria lo affascina, il mondo misterioso dei meccanismi di precisione lo attrae. Infatti, il suo astrattismo sembra essere la voce di questo profondissimo propagarsi di sensazioni «fredde», avulse da passioni e sentimenti immanenti. Olii pochi, come i colori. Di più sono gli smalti e le chine, che creano i chiaroscuri della sua mostra. Nero e bianco, con passaggi di toni e di colori, che non sono più tali, ma ancora nero e bianco per l’impressione di rarefazione che assumono all’aspetto. E l’occhio non vede che bianco e nero, giocato con le astratte figurazioni che Marpicati sente come necessarie. Ha superato lo stadio dell’emozione, del lirismo, per raggiungere quello della matematica certezza che, a suo modo, è arte delle forme pure. Non che Marpicati sia un seguace delle regole dei Soldati, dei Reggiani, dei Magnelli, oppure di Mondrian; ma anche con le sue composizioni ci dà la stessa impressione, ci offre i medesimi risultati.

7 maggio 1961

Giornale di Brescia

e.c.s. (ELVIRA CASSA SALVI), «Giornale di Brescia»

Dalla prima interessante personale di due anni or sono, nella quale si imponeva decisamente come una delle migliori promesse bresciane, la posizione del giovane Iros Marpicati ha subito un’evoluzione verso forme di esasperata allucinazione, di accostamento ai modi di certa avanguardia internazionale. La linea di sviluppo ha senz’altro una sua coerenza e continuità, anche se si affaccia sull’orlo di un precipizio.

L’espressionismo di partenza è andato via via intensificandosi e perciò stesso sempre più distaccandosi da riferimenti naturalistici fino ad assumere talvolta aspetti che possono ricordare quelli dell’action painting americana, di un Kline in particolare. La ricerca di una creazione pura, assolutamente libera da vincoli e limiti descrittivi, portata all’estremo della sua autonomia e dell’istintività, nasconde una genesi tragica. E’ in funzione di una angoscia che non trova più nessuna immagine adeguata e prorompe nella violenza dell’atto del dipingere, posto ormai nella sua immediatezza passionale, come un gesto o un grido.

Ogni contenuto preciso rallenterebbe – secondo tale poetica – la carica dell’emozione, che intende invece tradursi allo stato puro, incandescente per così dire. Intende manifestarsi come drammaticità in atto, come dinamica, come condizione esistenziale.

Tra il profilarsi di questo polo estremo e le immagini ossessive, ma ancora naturalistiche della prima mostra di Marpicatì, stanno posizioni intermedie, nelle quali si incrociano risonanze dal futurismo e dal surrealismo, con in più interferenze gotico o

germanico-orientali. Tanto per precisare, si avverte qua e là il fascino penetrante di un Hartung.

Sono tutti elementi rifusi e riplasmati in un accordo nuovo e personale, Le ombre mostruose e tentacolari dei gelsi, di due anni or sono, trapassano spontaneamente, e quasi necessariamente, in queste immagini evocanti ordigni o meccanismi insieme sconvolti e paurosi. L’idea della macchina che stritola, dell’insidia distruttrice della tecnica si mescola a suggestioni kafkiane, all’idea di coleotteri giganti, tra sventrati e minacciosi, tra belluini e subumani, in un incubo da Metamorfosi.

La forza del bianco e nero, la riduzione rigorosa della tavolozza ai suoi elementi negativi, imprime un risalto, incombente e aggressivo a queste rappresentazioni.

Marpicati sa sfruttare con abilità, con perizia sicura tutte le possibilità pittoriche e plastiche dei due estremi della gamma, con di mezzo le infinite gradazioni cromatiche dei grigi.

La lucentezza metallica, oppure organica, animalesca dei suoi neri, la solidità abbagliante dei suoi bianchi, il senso di spazio di certi fondali neutri. Con inversione dei rapporti: ora bianco su nero, ora nero su bianco, coagulati in grandi masse contrapposte, egli ottiene contrasti prepotenti, di un effetto talvolta persino crudele. C’è un che di luttuoso, di agghiacciante, di sinistro. Si ha l’impressione di un mondo orrido e spietato, ove non v’è più posto se non per la guerra dei mostri d’acciaio inferociti.

Ogni altro segno di vita cancellato, sembra l’avvento di una nuova età del ferro e del fuoco.

Un passo più in là ed è il deserto, il nulla, la devastazione totale.

Non ci si può nascondere che la stessa logica interna del processo di liberazione artistica sopra accennato contenga in sé una dinamica distruttiva. La ricerca ultraromantica della drammaticità, dell’emozione pura, ad un certo punto agisce come una molla a vuoto.

L’eliminazione di ogni aggancio realistico sottrae l’immagine alle sue possibilità comunicative ed espressive, la imprigiona nell’ermetismo della sigla, per poi dissolvere infine il segno stesso, la pittura stessa nell’irrazionalità di un gesto, nel vitalismo di un atto puro. Ed è la negazione dell’arte, la sua contraddizione in termini.

Di fronte a questa vertigine Marpicati mostra di essere lucido e consapevole, e gli va riconosciuta la sensibilità, la tensione, l’abilità tecnica con cui egli si batte sulla soglia estrema, sull’alternativa ultima tra drammaticità fatta poesia, tradotta in linguaggio comprensibile e invece gioco puramente formale.

Nota: nel 1988, il testo è stato riproposto nella pagina 64 del catalogo (a cura di Mauro Corradini) intitolato «Verifica: assonanze/dissonanze», [mostra collettiva, Brescia, Palazzo Monte Nuovo di Pietà, 16/6-12/7/1988], Stampa Tipolitotas (Brescia).

23 maggio 1964

Giornale di Brescia

e.c.s. (ELVIRA CASSA SALVI), «Giornale di Brescia»

Come al ritmo di una macchina da presa allucinata emergono, una dietro l’altra, dalla notte, e balzano incontro al visitatore in primi piani incombenti, le immagini che Iros Marpicati ha dedicato, nella prima sala dell’Aab, alla tragedia del Vajont. È una sequenza concitata, in cui ognuno dei ventotto quadri si legano come i fotogrammi di un’incalzante carrellata girata su una folla sconvolta.

Le luci gelide, acciecanti dei flashes hanno frugato le tenebre: hanno captato ritagli di volti o grandi mani come di pietra: pezzi di statue disperate.

Nella seconda sala è invece la furia della macchina scatenata: la macchina che investe l’uomo e lo stritola tra le sue viscere metalliche. Alla figuratività esplicita e «urlata» della serie dei disegni del Vajont risponde ora un linguaggio più complesso ed elaborato che si rifà all’espressionismo astratto. Ma qui non è – come potrebbe sembrare – la «pittura di gesto», sfogo di un romanticismo cieco e irrazionalistico: qui è la rappresentazione, a suo modo realistica, dell’oggetto assurdo e disumano, dell’ordigno in cui la civiltà tecnica si autodistrugge. Realistica e insieme surreale, ad esprimere appunto l’orrore del mostro meccanico (si veda Matta e gli italiani Romagnoni, Ceretti, Bertini).

Marpicati si inserisce così con impeto ed emozione nella problematica più attuale. Capacità di costruire per grandi sintesi energiche, immediatezza e forza plastica, acuta incisività del gioco di luce e d’ombra riconfermano nel giovane pittore – in questo suo ritorno da Milano dopo anni di lavoro silenzioso – un talento e una vocazione pittorica genuina.

Emerge dai suoi quadri un senso sincero d’angoscia e di disperazione teso fino al limite dell’enfasi o del grido esasperato. Questo è il limite contro il quale Marpicati deve battersi; è un limite proprio dell’età, dell’impazienza generosa con cui egli intende partecipare al dramma dell’uomo d’oggi. L’atmosfera della grande città industriale ed «avanguardistica» ha fatto certo sentire in questo senso il suo peso vincolante e ossessivo.Il tema dell’angoscia con la inevitabile rivolta stilistica e formale è uno dei passi obbligati dell’arte attuale.

Tra la sequenza dei volti del Vajont e la sequenza delle macchine che torturano e stritolano il corpo umano c’è infatti questo elemento di affinità, anzi di assoluta omogeneità: uno stato d’animo di protesta, di orrore che blocca la coscienza in un atto di rifiuto e di condanna.

Ma ciò che più interessa in un giovane promettente e dotato come Marpicati è l’affermarsi e il resistere in lui – pur così attento e desto alle esigenze dell’aggiornamento più scripoloso – della consapevolezza che il cammino dell’arte si svolge sul terreno delle esperienze vissute e umane, non su quello delle avventure formaliste.

Nota. Il testo è stato successivamente riproposto nelle due pubblicazioni aventi i seguenti riferimenti:

– pagine 35 e 36 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG), marzo 2010;

– pagina 94 del catalogo – a cura di Mauro Corradini – intitolato «La stagione di Elvira Cassa Salvi – Viaggio a Brescia nell’arte del secondo dopoguerra (1957-1974)», [mostra collettiva, Brescia, Galleria Aab: 23/9-18/10/2017], edizioni Aab, stampa La Compagnia della Stampa Massetti e Rodella Editore, settembre 2017.

23 maggio 1964

L’Italia

MARIARITA ZUCCATO, «L'Italia»

Entrando nella prima sala della Galleria Aab di via Gramsci, dove espone Iros Marpicati, si ha la subitanea impressione di visitare una mostra di fotografie ad alto livello artistico.

Solo in un secondo tempo, avvicinandoci ai quadri, si vede che sono opere in bianco e nero fatte da un artista padrone del disegno e di tutti gli accorgimenti tecnici del chiaro-scuro, tanto da ottenere giochi di luce ed ombra di grande potenza. Il Marpicati fissa in queste opere i vari aspetti del terrore e della disperazione dell’uomo davanti ai cataclismi e alla morte violenta.

I grandi quadri esposti dal medesimo artista nella seconda sala sono il prodotto di una sintesi di espressionismo, surrealismo collegato ad elementi cubisti. Anche qui si nota una certa compiacenza per gli argomenti allucinanti, orridi, macabri, (Incidente n. 2, n. 3, n. 4; «Processo alla macchina»). Lo sfoggio dell’abilità disegnativa diventa, a volte, pura accademia.

24 maggio 1964

Il cittadino

G.V. (GIANNETTO VALZELLI), «Il cittadino»

Un altro giovane prende d’assalto l’Aab e ne occupa le sale, le riempie col suo futuro d’artista.La mostra di Iros Marpicati è singolarmente coraggiosa – in questo momento di apatia culturale e di lassismo – ha soprattutto il merito d’insegnare ai coetanei che non ci si può più baloccare con le formule, le tendenze, le alchimie: ognuno è obbligato alla scelta e alla sua dichiarazione, se ha del temperamento. Se no, vuol dire che la peggiore provincia e lì pronta a ingoiare i tiepidi, gli incerti, le mezze cartucce senza personalità. E non si può negare che in Marpicati la voglia di definirsi è uno scoppio, una esplosione che viene dall’intimo. Dove tenda, è prematuro dire (con quali risultati, considerata anche la potente carica di espressione e persino di abilità che semina lungo le pareti della galleria di via Gramsci 17), resta un po’ problematica tutta questa sua intensa e ardente epifania; ma intanto è importante constatare come il desiderio della chiarezza lo abbia spinto a superare di colpo le ubbie, a riscattare quello pseudo anticonformismo che è la remora peggiore per un giovane di carattere perché impaniato dei vizi peggiori dell’odiata tradizione. Marpicati si rituffa nel figurativo dagli scogli della erosione astratta e lo fa con un impeto trascinatore, con un puntiglio di atleta, voglio dire con un suo stile.

La prima sala, dedicata per intero al Vajont, è un «reportage» drammaticamente alto, di scabra e simultanea efficacia: qualcosa di martellato e folgorante come in una sequela alla Dreyer, sviluppando in gesti e volti, primi piani dove l’angoscia si pietrifica, l’umanità è ingigantita prima di venire travolta nella sua fralezza di fuscello. In Marpicati c’è una “pietas” saldamente arcaica che si affida a bellissime mani di vecchie donne, a bocche risucchiate dalla potenza stessa della tragedia, a una coralità del dolore – non fato ma sussulto di sangue – che è da riportare oltre l’espressionismo e il realismo, a una pittura di sostanza secolare: un urlo secco ma antiretorico, una suprema disperazione levata in segno bianco e nero, un silenzio già di morte, una patita follia. E dopo questo ciclo fecondamente svolto in lampi di terrore, nell’altra sala Marpicati attesta di essere – fuori dal contingente – legato alla mostruosità del tempo, all’orrore di una cosiddetta civiltà, con la serie di grandi tele dedicate ai congegni di velocità che stritolano l’uomo: l’automobile entra nella pittura come documentazione di una cruenta frenesia. Il disegno si articola con una precisione più inventiva che meccanica (Marpicati, si sa, è rimasto con un piede nella facoltà di architettura) e il colore non è altro, per lo più, che un’esercitazione rigogliosa nella gamma di grigi. Qui l’effetto è ricusato appieno, la denuncia si fa schematica nella strutturazione stessa delle cose. L’uomo, nella morte, ha la secchezza di un uccello implume, infilzato al ritmo di un tremendo spiedo. Che non è un modo idillico di guardare la vita, ma una lezione del tutto lombarda, concreta – anche pittoricamente, ed è ciò che conta – di uscire dal trito e ritrito e sterile per dire qualcosa di nuovo e rivelarsi a sé e agli altri.

maggio 1964

Biesse

JO COLLARCHO (GIUSEPPE MARTELLONI), «Biesse»

Innegabili le grandi doti di disegnatore del giovane Marpicati: ma tutto il primo salone dedicato a La tragedia del Vajont (o, meglio, a certi volti angosciati e terrorizzati da un fattore esterno del quale, non esistendo alcun riferimento grafico preciso, nulla si sa e potrebbe benissimo esser anche il – “terremoto in Anatolia”), tutto un salone – dicevo – dedicato allo stesso motivo ha fatto sì che il salone stesso si trasformasse in una tetra galleria d’ingrandimento da fotogrammi di un film dell’orrore e dell’incubo.

Pannelli grandi, nella seconda sala, anzi grandissimi tipo uffici dirigenziali di industria internazionale. Qui, invece, si vive e si opera all’insegna dell’incidente: Cronaca di un incidenteAmbiente per un incidentePreparazione di un incidente… mi attendo di leggere, da un istante all’altro, “Promessa di un bell’incidente con almeno 4 morti“, ma vado deluso (in compenso c’è un altro “soggetto Vajont”). Impianto su disegno solidissimo, ma colore sfatto e pressoché assente.I soggetti non son certo fatti per adornar la casa di automobilisti o motociclisti (con tutto quel che accade quotidianamente sulle nostre strade!…).

Non nego no, vivaddio, a Marpicati il diritto ad una “sua ricerca” (come non gli nego “le ricche possibilità espressive di cui è dotato”): dico soltanto se non era assolutamente lecito sfruttare tali “ricche possibilità” per esprimere – una tantum – un sentimento che non fosse l’angoscia e presentare in questa

“personale” almeno una – una soltanto – opera meno ossessivamente deprimente. E qui nasce spontanea la domanda: ma la saprà poi, non dico fare, ma concepire?

29 gennaio 1966

Giornale di Brescia 

g.v. (GIANNETTO VALZELLI), «Giornale di Brescia»

E’ di questi giorni la cronaca di una ennesima dimostrazione degli scampati alla tragedia del Vajont contro la burocrazia. Il tempo si è glacialmente fermato sulle rovine di Longarone. E proprio in questi giorni Iros Marpicati ha concluso quel suo lucidissimo ciclo di disegni sul disastro del Vajont di cui aveva presentato a Brescia la prima serie – con una mostra di richiamo e di rottura – nella primavera 1964.

Se a Roma, per la sua indolenza felina, Schifano viene ormai chiamato – grazie allo scrittore Parise – «il puma della giovane pittura italiana»,che appellativo affibbiare al nostro Marpicati? Per il suo tagliente profilo da falco e per la sua innata eleganza da fenicottero, l’artista concittadino può offrire l’estro di un simbolo miticamente combinato: c’è un ardore, una tensione in lui, una inquietudine che lo fa spaziare sopra la realtà per una ricerca dell’uomo e dell’umano nella pittura, ma in un modo acuto, penetrante, da uccello che plana dagli alti picchi con occhio avido e sicuro. Marpicati vuole arrivare alla antica materia dell’arte con un volo libero, staccato, impetuoso. E se adesso ha concluso le sue figurazioni atterrite e lancinanti sul Vajont – con un vigore aderente fino all’osso, la sintesi voluta al di là dell’effetto, l’urlo annidato nella piega della bocca o nel lampo dello sguardo, il dramma esaltato dal contrasto fra i neri pastosi e i bianchi così riarsi, furiosi – è anche perché altro cammino lo avvince dove la cronaca è redenta da un nuovo incanto, da un altro processo dì sublimazione del tragico quotidiano.

Ma di questo dirà la critica all’occasione. Ora Marpicati (che, tra l’altro, è stato premiato alla Mostra nazionale di Cinisello Balsamo ed è fra gli espositori del Concorso Nazionale Ramazzotti al Palazzo Reale di Milano, insieme a Dessanti, Gasparini e Don Renato Laffranchi) lascia Ghedi per la città, lascia alle spalle i gelsi spaccati dal gelo, il primo motivo di una pittura che resta radicata all’uomo. Il ritiro in città come recupero attraverso l’alienazione, e oltre l’alienazione, per una decantazione delle immagini che assediano il pittore.

La serie dedicata al Vajont è stata una sollecitazione al lavoro, un’impostazione nel tempo. E la critica e gli amici l’hanno accolta con entusiasmo. Altre voci, altre stanze attendono ora Marpicati.

16 luglio 1966

La Voce del Popolo 

Attilio Mazza, «La Voce del Popolo»

I suoi problemi sono tipici dell’uomo d’oggi: se stesso e il mondo. Dove per mondo non si intende solamente la natura, ma tutto ciò che è al di fuori di sé. Così, ad esempio, gli altri uomini e le macchine; oppure le carestie ed i terremoti. Perché tutto, per Iros Marpicati, è pittura, a cominciare dalle case del suo paese, sino al traffico della città. E ciò perché le case ed il traffico stimolano il sentimento; come lo stimolano tutti gli avvenimenti ed i drammi della vita.

Quest’arte nuova richiede impegno dell’uomo, prima che dell’artista. Un impegno di vivere con il proprio tempo, approfondendo i temi dell’essere e della nostra civiltà. L’arte di Iros Marpicati va al di là della figura e del paesaggio per diventare testimonianza – talvolta polemica – del nostro mondo.

L’artista ha lasciato alle sue spalle il paese, Ghedi, e la provincia. E’ diventato un cittadino del mondo, nel senso che la sua vita è protesa verso il futuro, senza essere legata ad alcun luogo. E ciò testimonia il suo desiderio di una esistenza attiva, piena, ricca di contatti umani, in una nuova dimensione di interessi. Del paese gli è rimasto il modo di osservare le cose, in profondità – proprio dei contadini – e la franchezza dei modi. Per il resto è un tipico prodotto della città, con i mille problemi che rodono l’anima. Ciò spiega il senso di liberazione che Iros Marpicati prova quando torna alla sua Ghedi; una liberazione che deriva dal ritornare in un mondo felice, quello dell’infanzia e delle prime esperienze, dove erano ancora sconosciuti gli incubi della vita.

Fu proprio nell’aperta campagna di Ghedi che egli fece le prime esperienze disegnando e dipingendo contadini al lavoro, filari di gelsi, scorci agresti. Un modo fruttuoso di esercitare la passione della pittura che egli ereditò, con la nascita, dal nonno, e che in famiglia si rivelò pienamente in uno zio il quale insegnò anche alla scuola d’arte Moretto.

La scuola – a Bergamo prima, e poi a Milano dove frequentò il Liceo artistico ed il Politecnico – ed anche la vita, hanno portato a maturazione la sensibilità e l’arte di Iros Marpicati. La sua natura problematica si rivela nei primi quadri della maturità: ancora figure agresti, ma che diventano ossessive; gelsi nella neve che assumono sembianze umane patite; volti di donne scavati dalla sofferenza. Un’arte in cui si può scorgere il seme della evoluzione futura, verso forme più astratte che indicano il tormento dell’uomo e dell’artista.

Per questo, svolgendo i temi della sua ispirazione drammatica e tormentata, è giunto ad esprimere, in forma incisiva ed allucinata, il problema dell’uomo di oggi: quello della macchina.

Pezzi di macchina, prima, in bianco e nero; successivamente blocchi di macchine, e poi una macchina umanizzata. Tutto il dramma del nostro tempo è espresso in questi quadri. Il dramma dell’uomo e della macchina; della macchina che soffoca l’uomo.

E’ l’angoscia che ognuno di noi prova quando è rinserrato nella propria automobile fra decine, centinaia, migliaia di altre vetture; l’angoscia di tutti davanti alle macchine che fabbricano tutto, e che distruggono la nostra personalità, in un mondo standardizzato dove non esiste più il bello, ma solo il funzionale.

Sono questi, forse, i quadri più attuali di Iros Marpicati, e probabilmente quelli più sentiti. Sono quadri di valore universale, poiché esprimono un sentimento comune ad ognuno di noi.

Anche Marpicati ha la sua valvola di sicurezza. E’ il ritorno al figurativo, ad una tecnica dalla quale è partita la sua evoluzione. Per questo quando egli vuole purificarsi, quando si trova davanti ad ostacoli che gli sembrano tecnicamente insormontabili, torna al figurativo.

E’ un ritorno per ritrovare la freschezza, la naturalezza espressiva.

E’ un riprendere il colloquio artistico dell’inizio; un rifarsi a tempi che conservano sempre una carica stimolante. Ed egli confessa che il ritorno al figurativo lo tonifica, lo ringiovanisce – anche se i suoi anni non sono poi molti – .

E’ insomma l’unico sistema per purificarsi di molte esperienze per trattenere solamente ciò che, durante tanto lavoro, ha trovato di valido e di artisticamente interessante.

L’ultimo suo ritorno all’arte figurativa ha trovato il motivo nella sciagura del Vajont.

lros Marpicati ha dipinto volti di donne provati dalla tragedia; mani irrigidite dal dolore; scialli neri che coprono, pudicamente, le lacrime.

Attingendo al proprio cuore ha dipinto la sofferenza e la morte. Tutte queste donne esprimono un dramma non facilmente dimenticabile; una sciagura che rimarrà sempre incisa nei cuori.

Il senso tragico della vita, è in tutti i quadri di Iros Marpicati: sia in quelli figurativi, sia in quelli che tendono all’astratto. E’ la sua natura fatta così; una natura che gli mostra della vita gli aspetti più tristi, più angosciosi. Per questo gli piace Leopardi, Kafka e Musil. Egli ritrova in questi tre poeti tutto se stesso.

lros Marpicati prova spesso lo smarrimento di tanti personaggi di Kafka e l’angoscia di vivere propria del nostro tempo. Egli sente, per la macchina, attrazione e repulsione, in un inspiegabile moto del sentimento che talvolta, dialetticamente, si annulla.

Il suo sogno sarebbe quello di poter narrare, in un quadro, la “Metamorfosi” di Franz Kafka. Lo attira la vicenda di Gregor Samsa che, svegliatosi il mattino nella sua camera, anziché uomo si è trovato un immenso insetto, con mille zampe, e con una corazza al posto della pelle. E questo al di là del significato morale della vicenda, poiché non è tanto il fatto che Gregor Samsa animale non venga compreso da uomini-animali; quanto il senso angoscioso della vicenda, portata ad un limite di esasperazione che solo la morte può risolvere.

Questo, penso, chiarisce ulteriormente la natura di lros Marpicati, un giovane inquieto, estremamente sensibile. Un giovane, soprattutto che ha molto meditato e che spiritualmente ha già superato il problema della morte fisica, ma che non ha ancora raggiunto la catarsi dello spirito.

Prima di risolvere completamente il suo problema artistico, che raggiunge forme di esasperazione fra figurazione e non figurazione, credo che lros Marpicati dovrà risolvere tutti i suoi problemi di uomo, cioè di essere pensante. Solo allora potrà attingere a piene mani, alla propria anima.

5 marzo 1983

Bresciaoggi 

LUCIANO SPIAZZI, «Bresciaoggi»

Iros Marpicati ripresenta aIcuni istanti dell’ondata squassante che travolse un intero paese precipitando dalla crepa del Vajont e ne fa una cartella serigrafica. Fu una tragedia breve e agghiacciante, un colpo violento che passa subito via lasciando silenzio mortale. Il bresciano ne riassunse una ventina d’anni or sono con un taglio immaginativo di estrema partecipazione l’impatto tremendo fatto di terrore, preghiera, grido.

Il monocromo correva sulla superficie con pennellata di rapido gesto e pure incredibilmente esatta nell’offrire volti dalle fronti chiarissime, mani rugose dalle dita lunghe, sguardi intensi, movimenti d’istinto umani e nobili pur nel presagio della fine imminente.

Una rievocazione commossa che tratteneva nel ricordo donne dal destino anonimo e splendenti non tanto di un coraggio assurdo e senza senso, quanto di un’emergenza interiore che rendeva appieno la forza e la civiltà del loro destino nell’attimo stesso della morte.

La serigrafia ha aggiunto o tolto qualcosa a quella straordinaria serie di prove?

II ritocco, minimi ripensamenti, brevi lampi di rosso hanno offerto variazioni minime all’intuizione di partenza. Semmai la tecnica propria della serigrafia ha accentuato l’abbacinante presenza delle zone chiare che, a contrasto con le zone dipinte, accentua la tensione drammatica della violenza che sovrasta.

Luce di scoppio (come dovette essere il bagliore di Hiroshima?) che si esalta nel tenerissimo sbiancare dei visi di fronte alla catastrofe. In una delle salette del San Michele la cartella di Marpicati ripropone dunque con rinnovata valenza uno dei momenti fervidi dell’arte bresciana del dopoguerra. Primi anni Sessanta. Si stava uscendo dall’informale per lasciare posto alla prevaricante invadenza degli oggetti.

11 marzo 1983

Giornale di Brescia 

e.c.s. (ELVIRA CASSA SALVI), «Giornale di Brescia»

Dopo anni di silenzioso ritiro Iros Marpicati presenta nel ridotto della «Galleria S. Michele» i grandi fogli di una eccezionale cartella grafica: una suite di bruciante drammaticità, per la quale abbiamo avuto occasione scrivere: «Queste immagini di lros Marpicati vengono da lontano». Quindici anni fa queste stesse immagini davano un volto di rara potenza emotiva alla tragedia del Vajont; oggi le alte lamentazioni, l’umanissima pietas di questa sequenza danno voce sacrale all’angoscia per una violenza che non è meno straziante di quella, e non è episodica, anzi assidua, diffusa, ombra assillante che non si stacca da noi, da ognuno di noi neppure per un istante, per un’ora: l’universale violenza, più subdola che clamorosa, di cui sono intrise le anime di tutti, le cose ovunque; l’universale violenza che ci sta addosso, che fa scempio incessante, quotidiano di tutto ciò che nell’uomo è nobile.

Un grido lacerante di partecipazione si leva da questi fulminanti primi piani. Un corteo di prefiche, di lamentatrici, di neri scialli – luttuosa bandiera della pena universale soffocante – un lugubre drappello legato dallo strazio viene dalla terra che la violenza ha invaso, devastato. E va verso l’ignoto, verso la soglia di un infinito esilio, luogo di un’altra tenebrosa violenza.

Nei volti, nelle mani si leggono i segni d’una stirpe nobile; donne smagrite, diafane, carne cerea che in trasparenza lascia affiorare il biancore dello scheletro; luci gelide, spettrali che giocano con l’ombra più nera un gioco di lame taglienti e di acuti, raggriccianti stridori.

Oggi questa non è pittura visionaria, è realismo: quello stesso che a Marpicati suggeriva, vent’anni fa, quel suo indimenticabile canto, ancora in bianco e nero, sui ceppi, sui gelsi immersi nella neve; grandi carboni informi che non si sono accesi, non hanno dato fuoco e calore, sopraffatti dal gelo e dalla morte. La natura anticipava allora il lutto dell’umanità violentata, sempre più violentata.

Nell’orrore di alcuni sguardi, nello scatto di alcuni gesti è forse possibile cogliere un cenno di protesta, di rivolta? Forse sì. Ed è in questi cenni che mette qualche esile radice la vita di domani, l’immancabile vita che rinasce dall’esilio.

Non ci resta ora che riconfermare, di fronte ai grandi fogli di Marpicati, l’emozione e la convinta partecipazione che, al loro apparire, queste immagini produssero in noi.

1988 

Catalogo 

MAURO CORRADINI, «Verifica: assonanze/dissonanze», catalogo (Stampa Tipolitotas - Brescia, pagina 15) della mostra collettiva a Brescia nel Palazzo Monte Nuovo di Pietà, dal 16 giugno al 12 luglio1988.

…Marpicati di quella stagione fu un protagonista, e ne sono prova i riconoscimenti ottenuti a Suzzara, dove è premiato negli anni 1956, 1957 e 1959.

I riferimenti diretti – si tratta qui di un clima vissuto all’unisono – sono riconducibili essenzialmente a Francese e Vaglieri. E basterebbe sottolineare l’analogia tra il disegno marpicatiano della Contadina che beve (1956), con quello di Francese del Bracciante che dorme (1957) per rendersi conto del medesimo clima culturale, della medesima tensione espressiva.

Marpicati ha come riferimento il dramma esistenziale di questi contadini inurbati, il senso di una disfatta che ritroveremo – mutati i climi ed i tempi – sul fine degli anni Sessanta in un artista come Cottini; è il dramma della riconquista industriale, e dunque l’utilizzazione, in senso sociale, del discorso artistico.

Ma, sia ben chiaro, non siamo ai “manifesti”: la tensione emozionale che travolge le barriere espressive dell’accademia serve a costruire nuovi equilibri che vivono sulla drammatica esplosione di un segno che si fa sofferta rappresentazione.

1991 

Catalogo 

MARIO DE MICHELI, GIORGIO MASCHERPA, GIORGIO SEVESO (curatori); MAURO CORRADINI (collaboratore dei curatori); catalogo (edizioni Mazzotta, pagine 32 e 33) della mostra collettiva a Milano nel Palazzo della Permanente, dal 22 gennaio al 3 marzo 1991.

…Alle matrici milanesi sembra ricollegarsi anche Iros Marpicati; studente a Brera, è più attento alle inflessioni di autori vicini al clima culturale cui ci riferiamo: viene da pensare a certe asprezze realiste di un Giansisto Gasparini, o alle vicende plastiche di un Franco Francese.

Certamente Marpicati si muove sulle dimensioni di una realtà contadina rivisitata in chiave esistenziale; le sue figure femminili della Padania, la grande madre nera dai piedi robusti, sembrano recuperare in chiave esistenziale l’urgenza espressionista della cultura del tempo. Marpicati viene dunque a realizzare una sorta di “ponte” tra la cultura contadina, cui era ancorata la maggior parte dell’immagine realista, e la cultura urbana, che si affacciava prepotentemente attraverso la nuova generazione esistenziale, certamente figlia della dimensione urbana che, anche sociologicamente, stava diventando nettamente prioritaria. Se dunque il gigantismo delle sue figure poteva rapportarsi alla struttura narrativa del realismo precedente, la deformazione fisica e fisionomica veniva accentrando lo sguardo e la tensione su una diversa inquietudine, più prossima alle angosce esistenziali che non alle tribolazioni cariche di dramma delle vicende contadine del realismo precedente.

Il successo ottenuto dalle opere di Marpicati in un premio come quello di Suzzara non fa che confermare questa sorta di sottile collegamento tra una linea realista, a Suzzara dominante fino alla fine degli anni Cinquanta, e i nuovi frutti che le giovani generazioni stavano mettendo in campo, all’interno delle stesse declinazioni del realismo. Ed è vicenda comune a molti, di essere interpreti, all’interno della storia del premio padano, di una lenta e percettibile evoluzione formale e culturale, una sorta di trasformazione nella continuità di alcune presenze e persistenze.

31 ottobre 1996 

Bresciaoggi 

MAURO CORRADINI, «Bresciaoggi»

Da anni mancava sulla scena artistica bresciana; lo si era visto soltanto, ma con opere collocabili tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, in una “verifica” nell’ex- Monte Nuovo, quasi una decina di anni fa. Ritorna ad apparire al suo pubblico, con soddisfazione sua e dei lettori, il pittore Iros Marpicati con una compiuta mostra nell’ampia sala dell’Associazione Artisti Bresciani.

Presentato in catalogo da Mario De Micheli, che ricorda affettuosamente le sue due precedenti presentazioni, Marpicati propone l’ultimo triennio di lavoro (dal 1993 al 1996), incentrato sul dualismo “uomo-città”. E mentre la figura umana sembra discendere direttamente dalle tipologie espressive della figurazione, la città sembra costruita, come sottolinea acutamente De Micheli, da elementi “industriali e metallici” che “fanno pensare a vecchi strumenti di tortura, a laceranti offese della carne, a coltelli per trafiggere”.

Non casualmente il titolo dell’intera mostra, desunto dell’opera che apre lo spazio dell’Aab, è Ecce homo, titolo antico, con cui la nostra tradizione artistica ha sempre esibito la sofferenza, accresciuta emotivamente dal ricordo della pagina evangelica: nel caso di Marpicati, il suo Ecce homo (unica opera del 1991) si apre su un torso disteso, martoriato, dagli indubitabili caratteri di modernità, sotto cui, quasi a chiosa, si colloca sia il profilo della città industriale, di cui si è detto con le parole di De Micheli, sia una citazione fondamentale per le scelte poetiche dell’Autore, quella di Picasso, nel doppio volto della tragedia (“Guernica”) e della pace (“La colomba”).

L’immagine emblematica che apre la mostra, ne definisce anche gli ambiti: tutta la mostra appare costruita per opposizione e per contrasto, opposizione che non è soltanto palesata dalla distinzione di ogni singola opera, suddivisa quasi sempre in due o tre scomparti, ma anche attraverso una diversa modalità stilistica. La figura umana, spesso un tronco, a volte un uomo dalla cintola in su, poche volte un uomo intero, riverso o in piedi, appare rinserrata da una o due immagini che rappresentano la città: facile la metafora della gabbia e della chiusura: l’uomo contemporaneo è racchiuso non da un luogo fisico, ma da un ritmo sociale che aggredisce e stritola (per questo la figura è spesso quella dell’uomo sofferente).

Sarebbe tuttavia ancora lettura parziale: la città non solo è l’elemento occludente e aggressivo di cui si è detto; essa è materialmente e stilisticamente costruita in modo diverso rispetto alla figura: quest’ultima, si è accennato, ubbidisce alle regole espressive della figurazione post-bellica, si propone come una immagine sintetica e serrata, ma mimeticamente riconoscibile; la città, al contrario, è costruita per sagome geometriche, spesso utilizzando profili dal sapore metallico, sagome che non mimano la realtà, ma la assolutizzano nella sua essenza. Si vedano, a riprova e conferma, alcuni passaggi, quelli in cui non compare la figura umana (Paesaggio tagliente, 1993, per esempio, oppure Ricordo di due paesaggi, 1995): anche in 54 questi casi, nessuna forma sembra voler recuperare il volto esteriore delle cose, ma quello segreto, l’anima strutturale della nostra città, così impalpabile e vuota, e così inquietante.

Il contrasto formale si coniuga dunque con quello espressivo, per cui l’opera appare come la trascrizione metaforica di un disagio, di una distanza: e se pensiamo che da oltre 30 anni questo valido artista manca dalle scene bresciane, qualche profonda ragione di disagio, che qui visivamente avvertiamo, deve pur esistere. La gioia di un ritorno non può farci dimenticare il nodo esistenziale, che Marpicati vuole sottolineare con la sua ricerca.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 53 e 54 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

ottobre 1996 

Bresciaoggi 

Milena Moneta, «Bresciaoggi»

Il pittore ghedese Iros Marpicati si ripresenta al pubblico, dopo alcuni anni di silenzio, con una personale che sarà inaugura¬ta oggi, alle 18, nella sede cittadina dell’Aab, l’Associazione artisti bresciani, in vicolo delle stelle 4.

Come in ogni vero artista che dipinge per un bisogno interiore, anche l’acuta sensibilità di Iros si è lasciata travolgere da vicende esistenziali, da un rifiuto dell’anima di trasferire sulla tela la sua ricchezza interiore, che lo aveva messo in gioventù in pole position per raggiungere la fama nazionale.

Un lutto familiare che gli ha lasciato un vuoto che nemmeno l’arte ha saputo colmare, e altre vicissitudini che hanno straziato la sua esistenza, hanno fatto sì che Iros decidesse a un certo punto di mettersi da parte, timoroso di mostrare agli altri le suo opere come a rivelare sé stesso.

Ora finalmente, complice la Aab, Iros torna allo scoperto per consentire a chi da sempre ha ammirato i suoi quadri di rinnovare l’apprezzamento per la sua opera.

Figlio d’arte (il nonno Francesco era poeta e decoratore, lo zio Cirillo era altrettanto dotato e sostenne la sua propensione artistica fin da piccolo), Iros è nato a Ghedi nel ’33, e fu presto messo a bottega da un maestro. A 11 anni era già nello studio di Emilio Pasini, in Contrada Santa Chiara. Poi l’accademia Carrara di Bergamo, allievo del grande affrescatore Achille Funi. Quindi si diplomò al liceo artistico di Brescia e si iscrisse ad Architettura.

I suoi primi soggetti si sono ispirati al mondo contadino, rappresentando a metà tra il sociologico e il metafisico, portatori, quegli uomini e quelle donne, di una sofferenza e di un dolore che si faceva carico dello strazio dell’umanità intera. Poi ai gelsi ai contadini e alla brughiera si è aggiunta la tragedia del Vajont, tema di una memorabile serie, e più tardi gli incidenti automobilistIci.

Anche se ultimamente ha cercato di sdrammatizzare, ha cercato di dipingere con colori meno gridati e più contenuti, c’è sempre una tensione che lo avvince alla figura.

1 novembre 1996 

Giornale di Brescia 

FAUSTO LORENZI, «Giornale di Brescia»

All’Aab, dove ebbe sede una confraternita di Disciplini, i grandi cartoni intelaiati di Iros Marpicati, montati a polittico, assumono un esplicito riferimento alle pale d’altare: ci confessano la stessa aspirazione a un ordine figurativo sacro. Una figura di giovane ignudo, avvinto da una spossatezza mortale, giace come un ignaro capro espiatorio, assediato da paesaggi andati in frantumi. La disposizione stessa delle opere ha la simmetria d’un’ossessione rituale. Una trenodìa, un canto di morte su un’innocenza offesa.

L’unità di fondo di ogni opera è cercata in un’algida tessitura di assonanze-dissonanze, tra la consistenza inerte del nudo e l’allucinante evocazione di stanze domestiche e terre lontane, tra forme sinuose (poche) e tralicci di cocci aguzzi (molti). Un’associazione di spazialità nevrotica e assurda, come cercasse una regola di montaggio allo sperdimento di sé e della vita. La struttura è custode dello sguardo desiderante, d’un sottile delirio, coi paesaggi a frantumarsi nella memoria come blocchi di ghiaccio in un mare artico nella stagione del disgelo. Paesaggi metallici, assillanti, d’una città torturatrice o d’una periferia del mondo, d’una condizione malata del vivere, ma che s’aprono su squarci di smemoratezza nell’infinita vanità del tutto.

È la luce la qualità poetica di Marpicati, tra inasprimenti drammatici, al limite d’un bianconero filmico espressionista, e una lenta, snervata estenuazione cromatica, anche nel coinvolgimento dell’aerografo che immerge in un’aria malata e irreale, di malinconia schiacciante: una tecnica d’evocazione simbolica e sensitiva, ma riportata così in un bagno fissante, di rarefatta assolutezza. La bellezza consumata in uno sfinimento livido.

Un ritorno desolatamente solidale, di elegia struggente e acre lirismo. Non si poteva attendere che con una certa apprensione questo ritorno di Iros Marpicati sulla scena della pittura bresciana; a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 s’era imposto con prepotenza con una lancinante lucidità visiva, specchio – allucinante – di condizione umana, tra racconto civile e rivolta umana. Aveva cominciato, lui che veniva dalla Bassa, accompagnando i contadini in città come a una mattanza: il disagio, lo sradicamento, l’alienazione. La sua ultima mostra risale al 1964. Del 1966 è un ciclo sul Vajont; poi solo cartelle di litografie, serigrafie, presenze sporadiche e occasionali. Un grande sonno, come dell’ignudo all’Aab.

Già allora emergeva un lirismo amaro, da quel giudizio aspro e urticante sulla brutalità del reale, dal suo non concedere scampo all’inerzia, alla solitudine e al dolore. Anche la natura come consolazione agra, di immobilità schiacciante. Quella stessa disposizione si fa ora deriva in un’inghiottente dolcezza. Di dura malinconia. Già il Marpicati di allora, vicino alla ricerca di una nuova figurazione che passasse oltre la contrapposizione ideologica tra realismo e astrattismo, testimoniava il procedere frammentario, il tempo interiore e l’arbitrarietà del reale, i comportamenti visti e decostruiti. E anche oggi l’esplorazione si muove tutta nel campo della permutazione delle immagini, della fluidità dell’evento visivo tra figurazione e astrazione. Conta la qualità visionaria della tela quasi fosse uno schermo nel buio del cinema, per proiettare un’introversa ossessione esistenziale.

Marpicati è quasi manieristico, in certi addensamenti cupi di neri o stordimenti lattei di bianchi, in trasparenze glaciali, ma il corpo che riottosamente resiste perlaceo, quasi senza colore, in una sua impenetrabile bellezza (un ecce homo dice Mario De Micheli nella presentazione in catalogo) è umanissimamente disperato, sul tavolo anatomico d’una stremata, ultima pietà. Marpicati avrebbe voluto titolare questo suo ciclo Pastorale: un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente avvolge l’angelo decaduto verso un limbo di notte bianca del mondo. All’artista ritrovato resta questa consolazione, il sogno della visione.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 51 e 52 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

22 ottobre 1998 

Bresciaoggi 

m. mo. (MILENA MONETA), «Bresciaoggi»

Dopo 26 anni e a due dalla straordinaria mostra che all’Aab ha riconsegnato alla città la sua geniale espressività artistica, Iros Marpicati, pittore nato a Ghedi, ma da tempo residente a Brescia, è tornato ad esporre a Milano con una personale alla galleria Ciovasso di Giovanni Billari, in corso Garibaldi 34.

Espone opere realizzate dal ’93 al ’98 in cui fissa in modo drammatico, con colori spenti eppure vitali, una sotterranea ribellione, la fatica del vivere, l’uomo soffocato, senza vie di fuga, dalla violenza della civiltà.

«È per questo che ogni suo quadro è un esplicito “ecce homo” costretto tra paesaggi industriali di astratta e crudele aggressività – spiega Mario De Micheli, autore del saggio critico in apertura di catalogo -. Così ogni corpo che dipinge, quasi senza colore, è una vittima sacrificale, che vede intorno a sé città spietate dove ognuno di noi è assediato».

La sua comunicazione e la sua ricerca che lo portano a coniugare l’astratto espressionismo con l’immagine, lo portano spesso ad inserire figure umane nei suoi metallici paesaggi, la cui delicata bellezza respinge la violenza contemporanea che ne minaccia l’integrità. «Così egli dipinge i suoi nudi dove è la tenerezza che domina, la delicata istanza della passione che pretende il riscatto. Patiti e amorosi, questi giovani sono invasi da un’ebbrezza di morte. Ma, come si sa, il poeta e l’artista, anche quando descrivono la morte, cantano la vita: ed è appunto così che lros li rappresenta, anche se hanno mortali sem¬bianze», si esprime ancora il critico.

il tutto affidato ad una tecnica raffinata che passa per gli smalti spray e carboncino, il pastello e la stratificazione polimaterica, che sfuma i colori e li attraversa con improvvise lacerazioni di luce, così come una ferita imprevista fa sanguinare la statuaria bellezza dei corpi rappresentati.

La poesia cromatica di Marplcati è sottolineata anche dal saggio di Valerio Terraroli sempre in catalogo. La mostra, aperta il 20 ottobre, si protrarrà fino all’8 novembre, e potrà essere visitata dal martedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 15.30 alle 19.30; la domenica solo di pomeriggio.

25 ottobre 1998 

Bresciaoggi 

MAURO CORRADINI, «Bresciaoggi»

Partiamo da fuori provincia, dagli spazi della Galleria Ciovasso a Milano, in cui espone uno dei più significativi pittori bresciani del nostro secolo, Iros Marpicati, nato a Ghedi alla metà degli anni Trenta, e attivo in città dal dopoguerra.

Marpicati cresce in quella stagione che fu detta (e dimenticata) del «realismo esistenziale», quando il segno realista si trasforma e diviene da descrittivo, evocativo. La realtà non viene letta come una dimensione sociale di blocchi socio-politici contrapposti, ma come il luogo delle individuali contraddizioni: la divisione in classi viene sostituita da una rivolta a tutto campo, preludio di quell’altro uomo, quello «a una dimensione», che segna le vicende dell’ultimo quarto di secolo.

Il pittore bresciano costruisce l’immagine come una relazione del protagonista con la struttura urbana, struttura antagonista al singolo, spesso ossessiva, quasi aggressiva. Anche oggi l’uomo di Marpicati, il giovane uomo racchiuso tra due spazi industriali, o la bambina rinserrata da una tecnologia fuori controllo e disumanizzata, si mostra nudo, innocente e puro, contro una sovrastante mostruosità.

Anche se, per seguire Bossaglia nella presentazione critica, forse lo sguardo del pittore si è «leggermente addolcito».

Pagine grafiche quelle di Marpicati – il suo tratto caratteristico è il disegno, con pochi cenni di colore che si propongono con la perentoria verità dell’immagine che non vuole descrivere, ma indicare ambiti mentali e inquietudini interiori: l’arte ritorna ad essere metafora del nostro inquieto incedere in una città ostile.

4 novembre 1998 

Il Giorno

GIAN MARCO WALCH, «Il Giorno»

Una bambina con le manine (forse) legate. Il viso verso l’alto, sembra voler fuggire, ma è imprigionata fra due squarci di paesaggi lacerati. Un braccio che pende (forse) da un letto. Sonno, se di sonno si tratta, certo innaturale, cullato, ai lati, da ombre taglienti di una città industriale. Gli impressionanti dittici e trittici di Iros Marpicati , bresciano, nato nel 1933, raccontano la violenza della civiltà contemporanea, le sue tragedie da prima pagina tv. Bianchi neri grigi spenti, improvvisamente percorsi da ferite di colore. Sapienti montaggi di cartoncini e collage per giovani corpi sacrificati, dissacrati e resi sacri dalla pietà che si fa forse estetica.

5 novembre 1998 

Bresciaoggi

LUCIA ZANOTTI, «Bresciaoggi»

Nei giorni scorsi è stata inaugurata a Milano, nella Galleria Ciovasso, un’esposizione degli ultimi lavori del nostro concittadino Iros Marpicati.

Nella sua lunga esperienza artistica, Marpicati ha trattato soprattutto il tema della vicenda umana con tutte le contraddizioni e i dolori che questa porta con sè, indagando con grande sensibilità e partecipazione le difficoltà dell’esistere. Di volta in volta si è soffermato su problemi diversi, mentre anche le sue modalità espressive si modificavano. Valga come esempio il sofferto, violento espressionismo della cartella grafica sulla tragedia del Vajont, anch’essa in mostra benché cronologicamente molto anteriore alle altre opere. Si tratta di una raccolta di serigrafie la cui concentrazione emotiva è tale da rendere quasi difficile l’osservazione: il che, per quanto la serigrafia non sia uno dei miei generi preferiti, la rende notevole. Lontani e vicini al tempo stesso da questa esperienza sono i quadri, o per meglio dire pannelli (data la complessità della tecnica usata), dell’ultimo periodo. Lontani all’apparenza, per la resa visiva molto più dolce, e vicini per le tematiche, che a un’attenta analisi si rivelano sempre le medesime. All’aspetto infatti, in queste opere domina un’ingannevole dolcezza, un’attenzione profonda all’armonico disporsi degli elementi, che sembrerebbe profondamente diversa dall’espressionismo insistito di un tempo.

Qui regna, invece, un sommesso accordo di toni e sfumature che ricorda una partitura musicale o un progetto architettonico. Infatti ogni elemento, ogni singola immagine sono legati fra loro, in una unità indissolubile.

Questa unitarietà di fondo attraversa i singoli pannelli e li riunisce, tanto che si potrebbe quasi parlare non di opere a sè stanti ma di un’unica, complessa opera. Unica è infatti la tematica: la vita dell’uomo costretto nell’attuale società, in una «civiltà» che lo schiaccia, lo massifica, ne violenta la più intima natura.

Così nascono i nudi addormentati di Marpicati, figure dormienti in cupi paesaggi urbani, in cui la tinta dominante è il nerofumo o il grigio dello smog. Questi desolanti paesaggi, così totalmente vuoti e alieni da qualsiasi tratto umano, ci trasmettono un senso di rassegnazione, di ineluttabilità. Con le loro linee spezzate e convulse circondano, quasi a volerli sopraffare e inglobare in sè, le tenere figure umane, doppiamente indifese. Indifese perché nude e quindi inermi, indifese perché addormentate, e quindi ignare e inconsapevoli.

Si veda, per esempio, il bellissimo L’uomo chiuso tra due paesaggi, in cui il giovane al centro del pannello è perso nel proprio oblio, in un completo abbandono, mentre ai due lati premono due vedute urbane. Non a caso, mentre nelle raffigurazioni dei corpi prevale il dato naturalistico, che, pur non insistendo sul lato meramente anatomico, li rende reali e sofferti con pochi tratti sfumati, nella rappresentazione dei paesaggi prevale il dato astratto. Non vi è più alcun elemento riconoscibile: nè strade, nè case, nulla insomma di familiare, ad affermare il senso di alienazione di cui parlavo sopra.

Un altro stupendo quadro è La bambina imprigionata, che per struttura ripete il precedente. Stavolta abbiamo, invece dei giovani uomini presenti nelle altre opere, una bambina, e quindi un soggetto ancora più debole e più indifeso, che non dorme, anzi è cosciente del proprio essere intrappolata e che cerca disperatamente di liberarsi: una perfetta metafora dell’infanzia di oggi. Quante volte infatti i bambini sono in ostaggio delle nostre città, dei nostri capricci, a volte delle nostre voglie, insomma ostaggio di una società che non ha uno spazio per loro e che li rende troppo spesso un semplice oggetto di consumo. La disperazione della bambina imprigionata, resa da Marpi¬cati con profonda partecipazione, non può lasciarci indifferenti.

Queste tematiche tornano, come abbiamo detto, in tutte le altre opere, variamente combinate: l’artista analizza le diverse parti del problema a volte da sole, a volte insieme, da ogni angolazione. Per cui abbiamo i Paesaggi urbani in sè e per sè, che senza la presenza-contrasto della figura umana acquistano molto in freddezza, ma perdono forse una parte della loro efficacia espressiva. Oppure abbiamo gli stupendi Studi di figura, in cui vengono riproposti i giovani addormentati dei grandi pannelli, che nella loro voluta e raffinata incompiutezza creano un’atmosfera sognante e rarefatta, non più completamente drammatica: forse, più che altro, rassegnata e malinconica. Infine ci sono i grandi tondi, come il Giovane assopito al tramonto, che nella forma circolare e nella completa autonomia rappresentano un’ulteriore riflessione sull’uomo in sè e per sè.

Il senso di tragicità che emana dalle opere di Marpicati è servito splendidamente dalla tecnica con cui l’artista crea le sue opere. Frammenti di legno e cartoncini ritagliati delineano la superficie, giocando sul sovrapporsi dei piani, mentre il carboncino e gli smalti spray la disegnano in un accordo morbido e soffuso di colori che ricorda molto l’acquarello. I colori sono pochi, sempre gli stessi che tornano in un’uniformità insistita che è quasi una bicromia in bianco e nero, dalle indubbie valenze simboliche. Come simbolico è anche l’uso ripetuto delle strutture a dittico o a trittico, e le grandi dimensioni dei pannelli, che li rendono quasi delle pale d’altare profane. L’indubbia sapienza disegnativa di Marpicati aggiunge ulteriore forza espressiva .

Ci auguriamo quindi che questo interessante artista continui la sua ricerca. Nel frattempo, consigliamo vivamente a chi ne avesse la possibilità di visitare questa esposizione, che si tiene, lo ripetiamo, nella galleria d’arte Ciovasso, a Milano.

1998 

Artecultura

«Artecultura», mensile di manifestazioni artistiche e culturali

E’ veramente una stupenda mostra, quella di Iros Marpieati, (20 ottobre – 8 novembre) alla Galleria Ciovasso di Milano. Essa può indicare le nuove possibilità di un’espressione artistica caratterizzata da autentico realismo. Figure di giovani dormienti sono come imprigionate in paesaggi astratti, tagliati e sezionati da piani che incombono come ghigliottine. Marpicati, ispirandosi alle fonti di un certo Realismo Esistenziale (Romagnoni, in primo luogo) ha ridefinito una sua originale ed attualissima poetica.

19 ottobre 2000

Bresciaoggi

MILENA MONETA, «Bresciaoggi»

Il pittore bresciano (originario di Ghedi) Iros Marpicati, ritornato prepotentemente da un paio di anni sulla scena dell’arte dopo un decennio di volontario ritiro, torna ad esporre a Milano, ospite della galleria d’arte Ciovasso di Giovanni Billari (al numero 34 di corso Garibaldi).

Lì, fino al 4 novembre, ad illuminare le pareti ci saranno le opere realizzate negli ultimi due anni; molti disegni e molti dipinti realizzati con tecnica mista su cartoncino intelaiato: «Il dormiente tra spazi industriali», «Figura coricata in un interno ostile», «Memoria in due tempi drammatici», «L’uomo chiuso tra due paesaggi», «Figura femminile tra spazi aggressivi” … I titoli già rivelano un atteggiamento verso la realtà – la realtà tecnologica ed industriale – contrapposta alla fragilità umana, se non cupa, certo dolente.

Anche se «nelle opere più recenti, che peraltro sono in connessione stretta con quelle della produzione alle spalle, sia nelle tematiche, sia nelle modalità formali – afferma Rossana Bossaglia, che ne ha curato il catalogo della mostra e redatto il testo critico – sembra che l’interpretazione del reale si sia leggermente addolcita, e che alla tragicità degli spasimi si sia sostituito un liberatorio estraniamento dalle sofferenze».

Immutato nella raffigurazione artistica il tema di fondo: in una società tecnologica non trova posto qualche stralcio di libera natura e la vita come tale sussiste nell’oblio; il sonno nel quale dolci corpi di giovani vengono raffigurati, mantengono intatta la loro bellezza, si sprofondano non tanto in un limite esausto dello strazio, quanto nel riparo di un confronto rifiutato. E nel sonno acquistano una nobiltà statuaria, come dire una classica purezza, mentre rimane intatta la loro fresca carnalità».

«Marpicati, spiega ancora la Bossaglia – non si è fatto più ottimista, visto che si possono cogliere nelle sue opere riferimenti a Kafka e al lamento di Orfeo citato sotto l’immagine della morta Euridice. Direi piuttosto che la tematica non appare più quella ispirata al rapporto con la realtà del mondo industriale, bensì si collega ad una riflessione generale sul senso della vita; non è più una polemica, ma una meditazione».

Marpicati a fine novembre sarà a Ghedi, all’auditorium della Bcc dell’Agro Bresciano in piazza Roma, per la sua prima personale ghedese dal titolo «Ecce homo».

27 gennaio 2001

Giornale di Brescia 

TONINO ZANA, «Giornale di Brescia»

Un libro di racconti, uno scrittore, una sequenza di quadri, un pittore. Generazioni diverse: lo scrittore è Arturo Marpicati, il pittore è Iros Marpicati. Parenti e ghedesi.

II primo, letterato uscito dai confini, nessuna rinuncia all’amore per la terra di Ghedi, sempre nel tempio della sua brughiera, vasta di estensioni, magra di colture. Vi cresceva, soprattutto, ricorda la maestra Silvana Mor Perani, una specie di malinconia biologica, estranea alla risoluzione in un pianto finale, piuttosto una malinconia dispensatrice della memoria, di dove siamo stati, la prima volta.

Questa serie di racconti, stimolata dalla Banca di Credito Cooperativo, dal Comune di Ghedi e di Leno, titola nella speranza della luce rinascente e nell’affetto delle penombre, generatrìci di riposo e di epifanie chiare: «Sole sulle vecchie strade».

C’è un nuovo prodigio nato dal libro. È il ritrovo di un legame artistico oltre che parentale. L’incontro di Arturo e Iros Marpicati.

Lo star di fronte e il parlarsi di Arturo e Iros, pittore e intellettuale Arturo riprende la terra, si riavviluppa la placenta materna con il registro di un canto romantico, Iros richiama la dignità del pasoliniano tempo delle lucciole con una pittura di denuncia nel dolore, in cui la perfezione del corpo, che sa rendere con rara cura e precisione, viene minacciata dalla pressione delle fredde lamiere e muraglie delle metropoli mute. Il nuovo rifugio diventa il sepolcro, la morte buona, l’eternità di un corpo giovane, come l’idea di una brughiera disposta per sempre nel camposanto della piramide. Iros Marpicati coglie visioni profetiche nel vestire l’uomo della sua perfetta nudità e nello spogliare le città delle giunture pressanti e degli angoli aguzzi. Le punte minacciano, non trafiggono il corpo del giovinetto e dell’uomo, ormai salvi. La religione di Arturo Marpicati è la memoria, la religione orizzontale di Iros è l’esilio dalla distruzione.

Di lui, ormai, parla la critica nazionale. Rossana Bossaglia ha recensito l’ultima fatica esposta a Ghedi. Mario De Micheli lo vide subito agli inizi della sua storia: «…questo è quello che Marpicati vuole: dare grandezza alle immagini del suo sentimento». E la nostra, sempre, Elvira Cassa Salvi, scriveva del Vajont dipinto da Marpica¬ti: «…nei volti, nelle mani si leggono i segni d’una stirpe nobile; donne smagrite, diafane, carne cerea che in trasparenza lascia affiorare il biancore dello scheletro; luci gelide, spettrali, che giocano con l’ombra più nera un gioco di lame taglienti e di acuti, raggriccianti stridori …».

A questi racconti di Arturo, Iros Marpicati ha donato le ferite di un antico gelso piegato, un cielo di rami a punte sull’orizzonte e una figura femminile, accanto. Forse è la madre: invoca dal cielo le guarigioni indispensabiIi e l’energia per resistere a ciò che verrà.

9 novembre 2002

Giornale di Brescia 

FAUSTO LORENZI, «Giornale di Brescia»

Non è cambiato il tema di Iros Marpicati, negli ultimi anni: prevale una figura di giovane ignudo, “l’innocente” di perlacea, tenerissima e languida digitazione sensuale, però avvinto da una spossatezza mortale, giacente come un ignaro capro espiatorio, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati e aguzzi, in grandi cartoni intelaiati e stratificati, montati a polittico; o paesaggi di memoria macchinista-futurista, di congegni metallici, assillanti e aggressivi, ridotti a pure forme primarie frantumate in una spazialità nevrotica e assurda. La bellezza classica, morbida e accarezzata dalla luce, è in una condizione d’esilio, o d’assedio, entro i polittici che evocano la “forma” sacrale del sacrificio; né il soggetto in agonia può porsi, ci fa intendere l’autore, come principio ordinatore della realtà.

Molte visioni di Marpicati sono intitolate con riferimenti a compositori dell’Otto-Novocento, da Bartòk a Berg, da Stravinskij a Prokofiev, da Schönberg a Luigi Nono… : si può forse meglio intendere la potenza severa della sua pittura, dicendo che nasce dal contrasto tra sonorità percussive e martellanti, di violento scatenamento di materia “sonora” (pur scarnificato, prosciugato, ridotto all’essenza di pure geometrie) e un terso, dolcissimo e doloroso lirismo. Uno scontro tra sonorità “barbariche” e glaciali fissità, estatiche e visionarie.

Marpicati è innamorato di cinema e teatro musicale, e la sua potente suggestione è proprio nella scenografia d’un racconto onirico, nel buio della sala, in un’atmosfera commossa davanti all’irreparabile. È come se rivisitasse tutte le utopie visionarie costruttiviste del ‘900, e raccogliendo, del profetico grido espressionista, un residuo lamento attonito, constatasse il volgersi all’incubo delle ideologie del connubio del cuore e dell’acciaio.

Oltre al ritmo interno dell’immagine, c’è anche un ritmo di concatenamento da un dipinto all’altro in uno straordinario effetto plastico, come d’aprirsi e chiudersi di quinte d’una scena teatrale immersa in un’aria d’inquietudine visionaria, di malinconia schiacciante, dall’uso dell’aerografo: una tecnica d’evocazione simbolica e sensitiva, ma riportata in un bagno fissante, di rarefatta e misteriosa assolutezza.

L’angelo decaduto della bellezza è avvolto in un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente. L’artista è passato dalla denuncia alla meditazione.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nella pagina 69 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

7 ottobre 2004

Giornale di Brescia 

FAUSTO LORENZI, «Giornale di Brescia»

Un’opera del bresciano lros Marpicati (Ghedi 1933), «Memoria in due tempi drammatici n. 1», 2000, cm 140×80, è stata scelta per le collezioni permanenti del Museo d’arte Bargellini delle Generazioni italiane del ‘900, allestito a Pieve di Cento (Bologna). Un museo che sta raccogliendo sistematicamente – in rapporto agli studi ed ai volumi che lo storico Giorgio Di Genova e le edizioni Bora vanno dedicando all’arte italiana del ‘900, per generazioni – tutti i più significativi artisti del secolo scorso, ordinati per decenni. L’opera di lros Marpicati – che già tra gli anni ’50 e ’60 s’era imposto con prepotenza in Lombardia con una lancinante lucidità visiva, tra protesta civile e rivolta umana -, è emblematica della sua poetica negli ultimi anni, dove prevale una figura di giovane ignudo, «l’innocente» di perlacea, tenerissima e languida digitazione sensuale, però avvinto da una spossatezza mortale, giacente come un ignaro capro espiatorio, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati e aguzzi, frantumati in una spazialità nevrotica e assurda, assillante, in grandi cartoni intelaiati e stratificati montati a polittico. La bellezza classica, morbida e accarezzata dalla luce, è in una condizione d’esilio, o d’assedio.

2005

I  giudizi di Vittorio Sgarbi – 99 artisti dai cataloghi d’arte moderna e dintorni  

VITTORIO SGARBI, «I giudizi di Vittorio Sgarbi - 99 artisti dai cataloghi d'arte moderna e dintorni», pagina 114, Editoriale Giorgio Mondadori

Iros Marpicati è pittore di forte temperamento, il quale, coniugando il tema della solitudine, racconta e visualizza una serie di prigioni silenziose, tanto sofferte quanto del tutto oggettivizzate, che albergano, fra le loro pareti di pittura, figure umane addormentate. Ma sia chiaro che tutto questo attiene più a una riflessione metafisica che a un discorrere connesso retoricamente alla fenomenologia sociale dell’incomunicabilità. Un silenzio denso e avvolgente imprime a queste opere un senso di costrizione che, non a caso, si esplicita in una fra le più significative, quella dedicata a Kafka, lo Studio di fanciullo per “Nella Colonia Penale”. Anche qui, come nelle altre prove dell’artista, non è dato spazio a sfoghi autobiografici, piuttosto si impone il freddo controllo dell’esposizione di un dato di fatto. La qualità espressiva delle immagini rivela una manualità rigorosa e molto ben esercitata nell’arte del disegno, dove il gesto, che appare rigorosamente preordinato, non commette infrazioni nel gioco del bianco e nero e sembra agire senza ripensamenti. Sia nell’elaborazione delle tecniche miste su cartoncini intelaiati, che nell’uso della sola grafite, il racconto è arricchito da un linguaggio segnico incisivo, dove la presenza centrale della figura umana addormentata è composta in una drammatica e statica plasticità. La metafora del sonno – e qui è chiaro che per sonno non si intende il dormire più o meno profondamente, bensì la rappresentazione di un ego che persiste e che si proietta in un altrove onirico – non è il segno di una fuga dalla realtà, ma piuttosto quello di una clausura, di una comunicazione interrotta, o forse della difesa da una minaccia. Posti in uno spazio che conclude un destino immutabile, i protagonisti di queste composizioni sembrano aver preso atto che la realtà è un simulacro scenografico, un brandello di sogno a cui solo la scrittura pittorica può restituire dignità narrativa. Pittore raffinato nella modalità di trattare i passaggi tonali, prevale in Marpicati un grafismo severo e meditato, che modula il rapporto fra la figura centrale e i frammenti informali dei fondi che tendono a intaccarne la compiutezza. Questo artista è un narratore della sua stessa introversione: da una parte c’è l’intrico insondabile della realtà, dall’altra egli suggerisce un’immagine del sonno specularmente alternativa al vivere umano, come soluzione oggettiva e testimoniale dell’esistere al di fuori del caos della materia. Negli attori di queste scenografie si percepisce il bisogno di rientrare a occhi chiusi nella memoria perduta, con la lucidità dello sguardo interiore che si affaccia sull’assurdo. Nel loro sognare hanno in comune la purezza dei lineamenti, sia quelli indefiniti dell’infanzia, sia quando appartengono a un maschile e a un femminile straniati e senza età. Le figure imprigionate in un audace contrasto compositivo impongono una riflessione meditativa, un’aristocratica presa di distanza dal problema irrisolvibile della sofferenza, pur continuamente evocata proprio dalla dialettica fra l’informe e il figurale. È soprattutto interessante questo recupero, a livello tecnico ed espressivo, di forme neocubiste che si propongono in funzione di una giustificazione grafica della morbidezza lineare della figura umana, trattata invece dal punto di vista pittorico con la stessa plastica attendibilità di una natura morta. Infine, e al di là del senso specifico della narrazione, è la staticità leggera e innocente di questi sognatori che colpisce l’osservatore, la lacerazione ricomposta nell’apparenza dell’abbandono al sonno.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 81 e 82 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

8 giugno 2009

Giornale di Brescia 

FAUSTO LORENZI, «Giornale di Brescia»

Dopo Giovanni Repossi, un altro pittore bresciano di lungo corso è invitato con una mostra all’Università Bocconi di Milano, nel Foyer Sala Soggiorno della sede di via Sarfatti 25: Iros Marpicati, con opere raccolte sotto il titolo di «Paesaggi inospiti», Il catalogo è introdotto da Elena Pontiggia. La mostra dura fino al 17 luglio (da lunedì a venerdì ore 8-19, sabato ore 8-15, info 02 58362147).

Iros Marpicati (Ghedi 1933), formatosi alla Carrara di Bergamo con Achille Funi, quindi a Brera a Milano, poi studi d’architettura al Politecnico tralasciati per dedicarsi esclusivamente alla pittura, s’era imposto sulla scena lombarda con peso assai notevole alle soglie degli anni ’60, con temi di acre realismo esistenziale e di rivolta umana, apprezzatissimo da critici come Mario De Micheli, Rossana Bossaglia, Gianfranco Bruno, ma s’era poi eclissato per decenni dalla ribalta espositiva; ricomparve in città solo nel 1996 all’Aab, e subito fu riaccolto a Milano con rinnovato apprezzamento. L’ultima sua vera mostra a Brescia risale al 2002.

Iros Marpicati era tornato alla pittura inscenando la figura dell’Innocente, un giovane ignudo di perlacea, tenera e languida digitazione sensuale, avvinto da una spossatezza mortale, giacente come un ignaro capro espiatorio, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati e aguzzi, in grandi cartoni intelaiati e stratificati, montati a polittico. La bellezza classica, morbida e accarezzata dalla luce, era in una condizione d’esilio, o d’assedio, o addirittura d’agonia, entro polittici evocativi della forma sacrale del sacrificio. Un Ecce Homo costretto in spazi di minacciosa e crudele incombenza.

E già affioravano i paesaggi di memoria macchinista-futurista, di congegni metallici, assillanti e aggressivi, ridotti a pure forme primarie frantumate in una spazialità nevrotica e assurda, fatta di blocchi cupi e di lame seghettate e taglienti, che ora sono diventati i protagonisti assoluti della mostra milanese, ancorché siano «paesaggi inospiti», , in cui si profilano appena sagome umane, come braccate in quella terra desolata, anzi spietata. È come se il paesaggio del macchinismo industriale si fosse frantumato come un iceberg, e congegni, paratie metalliche e lame irte e acuminate andassero alla deriva.

Tutto è avvolto in un sudario di luce spietata e dolente. «In fondo – osserva Elena Pontiggia – Iros Marpicati non ha mai smesso di dipingere, come faceva nei decenni scorsi, il male di vivere. Possono cambiare i modi espressivi, ma rimane identica, inalterata, la loro dolorosa verità», . Una verità ridotta allo scontro più duro e severo, con riferimenti a una specifica cultura sonora di compositori dell’Otto-Novecento, da Brahms a Bartok, da Berg a Stravinskij, da Prokofiev a Luigi Nono, in un contrasto, come notammo in altra occasione, tra sonorità percussive e martellanti, di violento scatenamento di materia sonora (pur «ossificato», in puri ritmi geometrici) e un virile sgomento, di doloroso lirismo. Un concerto tra sonorità barbariche e glaciali fissità, estatiche e visionarie.

22 aprile 2010

Giornale di Brescia 

FAUSTO LORENZI, «Giornale di Brescia»

Un anno fa Iros Marpicati (Ghedi 1933) fu presentato da Elena Pontiggia all’Università Bocconi di Milano all’insegna di «Paesaggi inospiti», a dire una terra ostile all’uomo.

Ora la stessa Elena Pontiggia accompagna la monografia «Iros Marpicati. Opere 1954-2009» (Edizione CPZ), che verrà presentata dopodomani, sabato 24 aprile, alle 17.30, nella sede dell’Aab, vicolo delle Stelle 4. In copertina, uno degli «innocenti», angeli della bellezza decaduti, dipinti nell’ultimo decennio, avvolti in un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente, dall’artista è passato dalla denuncia all’elegia sgomenta, attonita, gemente. Iros Marpicati, formatosi alla Carrara di Bergamo con Achille Funi, quindi all’Accademia di Brera a Milano, poi studi d’architettura al Politecnico tralasciati per dedicarsi alla pittura, si era imposto con peso assai notevole già alla fine degli anni ’50, con temi di acre realismo esistenziale e di rivolta umana, di girasoli bruciati, gelsi divelti e contadini ormai alle periferie della storia, in acre, icastica impuntatura e monumentalità brusca e pesante, poi con Incidenti e Paesaggi meccanici tragicamente spettrali, sempre più d’allucinazione meccanomorfa, in un mondo già totalmente artificiale.

Fu molto apprezzato da critici come Mario De Micheli, Marco Valsecchi, Giorgio Kaisserlian, Rossana Bossaglia, Gianfranco Bruno, ma s’eclissò poi per decenni dalla ribalta espositiva, risucchiato in un suo tormento. Tornò a esporre in città solo nel 1996 all’ Aab, e subito fu riaccolto anche a Milano con rinnovato interesse (di Caramel, Soavi, Sgarbi, Giuffrè, Trombadori, Cortenova … ). L’ultima sua vera mostra a Brescia risale al 2002 alla (ora chiusa) Galleria Schreiber.

Iros Marpicati è tornato alla pittura inscenando la figura dell’Innocente, un giovane ignudo di perlacea, tenera e languida digitazione sensuale, avvinto da una spossatezza mortale, giacente come ignaro capro espiatorio, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati e aguzzi, in grandi cartoni intelaiati e stratificati, montati a polittico. La bellezza classica, morbida e accarezzata dalla luce, in una condizione d’esilio, o d’assedio, o d’agonia, entro polittici evocativi della forma sacrale del sacrificio. Un Ecce Homo costretto in spazi di minacciosa e crudele incombenza.

E sono riaffiorati i paesaggi di memoria macchinista-futurista, di cattedrali industriali, di congegni metallici, assillanti e aggressivi, ridotti a pure forme primarie frantumate in una spazialità nevrotica e assurda, fatta di blocchi cupi e di lame seghettate e taglienti. Nella più recente stagione sono protagonisti assoluti, «paesaggi inospiti», in cui talora si profilano appena sagome umane, braccate in una terra desolata, anzi spietata. E’ come se il paesaggio del macchinismo industriale si fosse frantumato come un iceberg, e congegni, paratie metalliche e lame irte e acuminate andassero alla deriva. «In fondo – osserva Elena Pontiggia – Iros Marpicati non ha mai smesso di dipingere il male di vivere. Possono cambiare i modi espressivi, ma rimane identica, inalterata, la loro dolorosa verità». Una verità ridotta allo scontro più duro e severo, con riferimenti a una specifica cultura sonora di compositori dell’Otto-Novecento, da Brahms a Bartok, da Berg a Stravinskij, da Prokofiev a Luigi Nono, in un contrasto tra sonorità percussive e martellanti, di violento scatenamento di materia sonora (pur «ossificato» in puri ritmi geometrici) e un virile sgomento, di doloroso lirismo. Un concerto visivo tra acciai barbarici e glaciali fissità, estatiche e visionarie. Marpicati è innamorato di cinema e teatro musicale, e la sua potente suggestione è proprio nella scenografia d’un racconto onirico, nel buio della sala, in un’atmosfera commossa davanti all’irreparabile, nel volgersi all’incubo delle ideologie costruttiviste-moderniste del connubio del cuore e dell’acciaio.

17 novembre 2010

L’ Avvenire 

DOMENICO MONTALDO, «L'Avvenire»

Iros Marpicati, bresciano di Ghedi, architetto mancato per amor di pittura, è artista dal vissuto importante e dalla qualità costante, pur nelle diverse stagioni della sua ricerca.

I lavori d’esordio – datati 1956, di tema contadino e presentati nell’ambito dello storico Premio Suzzara – documentano una prossimità, di sensibilità e di modi, al «realismo» postbellico Franco Francese: superbe, drammatiche figure costruite solo col nero. Un’esistenzialità sincera e risentita che sfocia più tardi, alla metà degli anni ‘60, nella stupefacente serie degli Incidenti: oli e collage di grande formato, anche qui prossimi al monocromo, dove l’assurda attualità della morte sull’asfalto viene filtrata impaginando allucinate anatomie di macchine e di corpi, in un clima pittorico squisitamente milanese, condiviso da maestri coevi quali Romagnoni, Recalcati, Vaglieri, Ferroni, mentre sullo sfondo rimane sempre il convitato di pietra di quella generazione di artisti allora trentenni: Francis Bacon. Tutta l’opera di Marpicati – che nel frattempo viene accostata da studiosi del calibro di Kaisserlian, De Micheli, Trombadori, Bossaglia, Caramel, Di Genova – verte intorno alla dimensione dell’uomo contemporaneo di fronte alla consapevolezza e alla nudità del proprio destino, insomma ciò che, con Gadda, potremmo chiamare «la cognizione del dolore».

Ora, una personale a Milano, curata dal critico Giorgio Seveso, ripercorre tramite 25 quadri di grandi dimensioni gli ultimi quindici anni di produzione dell’artista (Iros Marpicati. Paesaggi inospiti e altre presenze, Fondazione Stelline, Corso Magenta 61, fino al 12 dicembre). Rigoroso disegnatore, Marpicati trasfonde nei suoi dipinti il valore della manualità, usando grafite, tecnica mista, spray, come si può constatare nelle bellissime figure di Dormienti, realizzate nel corso del decennio ’90.

Come scrive giustamente Seveso, le opere recenti di Marpicati «… scivolano da una rigorosa figurazione verso i campi dell’astrazione. I suoi Paesaggi inospiti, infatti, sembrano strani e ostili ambienti, o enormi congegni meccanici e minacciosi, in cui l’uomo si perde. Le sue geometrie che si allungano in lame taglienti, si compattano in blocchi di colore nero, dove la figura umana, ridotta a sagoma quasi invisibile, viene inghiottita».

Accompagnata da un’elegante monografia, la mostra di Marpicati è una sorpresa per il pub¬blico e un atto culturale dovuto.

24 settembre 2011

Il Messaggero 

«Il Messaggero» (Roma)

L’uomo e la macchina. E’ il tema non certo inedito della mostra con cui lros Marpicati, bresciano, mezzo secolo di pittura alle spalle, si presenta fino a novembre nelle sale del Chiostro del Bramante.

Originale e intrigante la rivisitazione d’autore: la tirannia della tecnologia trasformata in incubo da sagome minacciose di congegni di fabbrica, rese a colori piatti e freddi; la perdita di ruolo dell’umanità suggerita da figurine in ombra sperdute come insetti in quel labirinto.

23 ottobre 2011

Il Tempo

GABRIELE SIMONGINI, «Il Tempo»

Kafkiano, enigmatico, spiazzante. É il mondo fatto di paesaggi inospitali dipinti da un artista eccentrico come lros Marpicati, a cui viene dedicata nel Chiostro del Bramante, fino al 29 ottobre, la mostra intitolata – con una scelta che intriga subito i visitatori – «Il labirinto dei corpi sognanti». Le ombre di minacciose ed indecifrabili architetture sovrastano minuscole figurine oppure solitarie figure maschili immerse in sonni profondi. Come scrive il curatore della mostra, Lorenzo Canova, l’artista «ha saputo dosare in modo sapiente la visione di taglio sociale e psicologico che indaga l’alienazione e la solitudine dell’uomo contemporaneo, la classicità e l’eros freddo dei nudi addormentati, la pittura di paesaggio urbano, periferico e industriale e un’astrazione geometrica che può ricollegarsi alle origini del pittore ma anche alle scansioni strutturali dell’astrattismo lombardo degli anni trenta del novecento». Ne deriva la visione neo-metafisica di un mondo glaciale, artificiale, praticamente inabitabile.

23 marzo 2013

La Repubblica

c.ga., «La Repubblica»

Per dedicarsi alla pittura disse no a Pasolini, che lo voleva come attore in Ragazzi di vita. lros Marpicati, bresciano di nascita, allievo di Funi alla Carrara di Bergamo e poi legato al critico Mario De Micheli nella Milano di Brera, del realismo esistenziale e delle periferie sorde dipinte nei toni della cenere, dal 1957 a oggi non ha smesso di raccontare la città. Prima, immaginando scenari onirici, popolati di figure dormienti inghiottite dal cemento. Più tardi, trasformando il panorama meccanico della “città che sale”, un po’ futurista, un po’ Metropolis di Fritz Lang, in un mondo poderoso ma incantevole agli occhi di passanti sperduti e insieme ammirati dai miracoli della tecnica. Una visione sublime, nel senso romantico, tradotta in pittura grazie al dialogo fra monumentali forme astratte, simili a profili di incudini e tenaglie, e silhouette di uomini piccini, in bilico su cornicioni e spigoli vivi di palazzi. Tagli cinematografici che, oltre a Lang, fanno pensare agli scorci verticali di BIade Runner, nella scena finale, quando il replicante si spegne sull’orlo dell’abisso. Che Marpicati cita, nelle carte gemelle dei Suicidi, dove personaggi in ombra si spingono sul limite del canyon pronti a spiccare un balzo, che non ha nulla di tragico ma sembra piuttosto il volo di un supereroe.

7 aprile 2015

Corriere della Sera

FAUSTO LORENZI, «Corriere della Sera (Brescia)»

Si apre il prossimo 11 aprile al Museo MllT di Torino (Museo Internazionale Italia Arte), in corso Cairoli 4, una mostra di trenta opere di grande formato del bresciano Iros Marpicati, presentato da Luca Beatrice (curò il padiglione italiano alla Biennale di Venezia del 2009) e da Claudio Strinati (già soprintendente del Polo Museale Romano). La mostra è intitolata «La costruzione della grandezza umana» e dura fino al 9 maggio. Il MllT è uno spazio museale aperto da poco in un Palazzo del ‘700 nel cuore di Torino, vera capitale italiana del contemporaneo, per realizzare scambi artistico-culturali con realtà internazionali e nazionali. In anni recenti l’artista ha avuto altre ampie personali anche a Milano (Università Bocconi e Fondazione Stelline), e a Roma (Chiostro del Bramante). Inoltre Marpicati, già inserito da Vittorio Sgarbi tra gli artisti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2011, per la imminente Biennale 2015 (apre a maggio) è stato scelto da Daniele Radini Tedeschi nel Collettivo La Grande Bouffe nel Padiglione del Guatemala all’Officina delle Zattere sul tema Sweet Death (la dolce morte).

Iros Marpicati, nato a Ghedi e formatosi all’Accademia Carrara di Bergamo con Achille Funi, quindi diplomato a Brera, studi di architettura abbandonati dopo un paio d’anni per la pittura a tempo pieno, si presentò con forza dirompente e lancinante lucidità visiva nei secondi anni Cinquanta del ‘900 sulla scena dell’arte italiana con temi di racconto civile e di rivolta umana. Nel giudizio aspro e urticante sulla brutalità del reale, dal suo non concedere scampo all’inerzia, alla solitudine e al dolore, emergeva un lirismo amaro, la natura come consolazione agra, di immobilità schiacciante.

Già allora fondeva nella sua ricerca temi del realismo esistenziale, dell’umanità umiliata e offesa, tra gelsi sradicati e contadini sconfitti ai margini della storia, tra incidenti e luoghi di allucinazione meccanica, e temi della ricerca dell’espressionismo astratto americano da Kline a Motherwell, ma anche del nostro Burri. Ebbe grande attenzione da tutta la critica nazionale, da Valsecchi a De Micheli, da Kaisserlian a Bruno. Del 1966 fu un ciclo dedicato al disastro immane della diga del Vajont, concentrato con forza epica sul dolore delle popolazioni travolte dall’acqua; poi l’artista s’inabissò in un doloroso esilio interrotto solo da cartelle di litografie, serigrafie, presenze sporadiche e occasionali.

Tornò a esporre una personale solo nel 1996 all’Aab in città con la figura di un giovane ignudo, innocente, di perlacea e languida bellezza sensuale, però avvinto da una spossatezza mortale, giacente come un ignaro capro espiatorio in un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati, in grandi cartoni intelaiati e stratificati, montati a polittico; e con paesaggi di memoria macchinista, di congegni metallici, assillanti e aggressivi, memori di ricerche futuriste, suprematiste e costruttiviste delle avanguardie del primo ‘900, ridotti a pure forme primarie frantumate in una spazialità nevrotica, di fissità glaciale, in cui si perdono minuscole figure umane. Di certo distrugge una finzione (le sue opere sono ferite, atti di violenza, anche se nascono in una straordinaria concentrazione meditativa) per recuperare verità essenziali, per ricondurre le cose più assurde e tormentate, da una sorta di scenario lampeggiante e corrusco, all’armonia, alla misura spaziale. Iros Marpicati è stato risalutato come un figliol prodigo da critici come De Micheli, Bossaglia, Cortenova, Caramel, Trombadori, Canova, D’Amico, Pontiggia (ha curato una sua monografia).

In mostra a Torino saranno i suoi paesaggi/congegni astratti – intitolati «Paesaggi inospiti» – che evocano una città torturatrice o una estrema periferia del mondo, in una condizione malata del vivere, in una follia di dominio sull’universo che si è ribaltata in schiavitù, ma s’aprono su squarci di consolazione e abbandono nell’abbraccio dell’infinita vanità del tutto. Altri cicli recenti dell’artista, altrettanto proposti al MIIT, sono intitolati all’«Armonia disarmonica» ed ai «Contrappunti del postumano»: strutture a campiture monocrome cercano l’unità di fondo in una architettura di assonanze-dissonanze, come a saggiare una regola di montaggio e di contemplazione severa allo sperdimento di sé e della vita. Da un’opera all’altra è come se l’artista volesse comporre un poema sinfonico armonizzando sonorità percussive e martellanti, dure e barbariche, di violento scatenamento di materia sonora ridotta all’essenza di pure geometrie e un muto, terso e doloroso lirismo di fissità estatiche e visionarie.

Dall’antico lamento di carni martoriate e griglie aguzze l’artista ha liberato un canto che si propaga in uno spazio di profondità inesplorate, di sgomento terribile e meraviglioso.

10 aprile 2015

La Stampa

MONICA TRIGONA, «La Stampa»

Inaugura sabato 11 aprile alle ore 18, per poi chiudere sabato 9 maggio, la mostra che il MIIT, museo internazionale Italia Arte, dedica a Iros Marpicati (Corso Cairoli 4, mar-sab 15,30 -19,30, su appuntamento domenica, lunedì e festivi, tel. 011/8129776).

«La costruzione della grandezza umana», questo è il titolo della kermesse, ospita una trentina di opere realizzate dal 2000 ad oggi dall’artista bresciano. Allievo di Achille Funi all’Accademia Carrara di Bergamo, ha iniziato ad esporre dalla fine degli anni ’50 dedicandosi ad una pittura che guardava con interesse alcuni dei maggiori esponenti americani dell’espressionismo astratto. I suoi recenti «Paesaggi inospiti» sono debitori delle sperimentazioni di quel periodo, quanto del mai celato interesse nutrito per l’architettura.

La Milano dove si trovò a lavorare era la città che meglio usciva dall’isolamento culturale in cui si era trovata durante la guerra. Aperta al confronto europeo e teatro di nascita di molti tra i movimenti più significativi del secolo scorso, dallo Spazialismo di Fontana all’Arte Concreta di Bruno Munari, la metropoli ha incentivato in questo «maestro del segno e del disegno» una ricerca suggestionata dalla macchina e dalla tecnologia a discapito dell’interesse per la figura umana. Se molti sono i riferimenti storici ravvisabili nei lavori in mostra, dal costruttivismo russo alle geometriche visioni di Max Bill sino alla semplicità e all’equilibrio strutturale di matrice purista, è pur vero che essi racchiudono un’originalità tutta loro. I temi formali legano strettamente la pittura all’architettura mentre i colori primari, su cui si affaccia talora l’uso del verde, conferiscono alle composizioni un aspetto a-temporale e simbolico. La mostra è corredata dal catalogo edito dal MIIT, con testi critici di Guido Folco, direttore del Museo MIIT, Luca Beatrice e Claudio Strinati.

8 maggio 2015

Bresciaoggi

GI. GUI. (GIAMPIETRO GUIOTTO), «Bresciaoggi»

Fin dalla prima mostra personale nel 1957 alla Galleria Spotorno, a Milano, l’artista bresciano Iros Marpicati ha inteso la pittura come grido soffocato verso il mondo, perché «la costruzione della grandezza umana», come titola l’esposizione in corso al Museo MIIT di Torino, è presunta in quanto governata da un dolore indicibile.

La visione individualista sembra confessare nel tempo una pittura concentrata sul senso dello svuotamento esistenziale, tanto che la percezione d’incompiutezza dell’Essere, riscontrabile in molti lavori degli anni ’80 e ’90, riemerge anche nelle opere recenti, a confermare la frattura tra realtà e coscienza, soggettività e storia.

La dicotomia è sciolta con la compenetrazione di architetture e geometrie astratte che, come enormi lame, tagliano lo spazio compositivo, compenetrando realistici ed esili corpi di giovani dormienti. L’incarnato grigiastro preannuncia l’annientamento del corpo, mentre l’immobilità e l’incombenza delle forme spigolose del paesaggio industriale umiliano la condizione umana.

L’artista bresciano sarà presente al padiglione del Guatemala alla 56esima Biennale di Venezia, con l’opera «Donna con bambina», eseguita nel 1964 e parte del ciclo di opere dedicate alla tragedia del Vajont.

9 febbraio 2017

Gazzetta di Mantova 

PAOLA CORTESE, «Gazzetta di Mantova»

“MIsteri di vita e di forme arcane” è il titolo della mostra personale dell’artista lros Marpicati che sarà inaugurata sabato alle 17 alla Casa del Mantegna.

La rassegna, a cura di Gianfranco Ferlisi e Claudio Strillati, ripercorre in particolare il lavoro dell’ultimo decennio di Marpicati, ma mette comunque in luce l’intera carriera dell’artista. Bresciano di nascita, formatosi all’Accademia Carrara di Bergamo, con Achille Funi, e poi diplomato a Brera, Marpicati iniziò a calcare la scena dell’arte alla fine degli anni Cinquanta, con temi di racconto civile e di protesta.

Sullo sfondo di un realismo esistenziale, si materializzava allora un lirismo amaro in grado di realizzare un discorso tagliente su una umanità umiliata e offesa, sulle vite di sconfitti ai margini della storia.

Negli ultimi vent’anni l’autore ha cominciato a rivolgere la sua attenzione alla delicata relazione tra l’artista e la macchina, con paesaggi astratti e geometrici, con forme primarie assiderate da un gelo glaciale dove si smarriscono, come fantasmi le silhouette di minuscole figure umane.

«Così l’artista ci dice, grazie alle cinquanta opere accuratamente selezionate, che l’arte non è la “scimmia” della natura e che i suoi prodotti sono immagini complesse e testi iconici che possono parlare della dimensione dell’uomo contemporaneo di fronte alla consapevolezza e alla nudità del proprio destino, di ciò che Gadda avrebbe definito “la cognizione del dolore” – scrive nel testo critico Ferlisi -. È questo il tema con cui lros Marpicati parla negli spazi della Casa del Mantegna. Assolutamente originale e intrigante è la sua rivisitazione d’autore: la tirannia della tecnologia trasformata in anti-provvidenza manzoniana, in incubo fatto di ombre e di sagome minacciose di congegni di fabbrica, di colori piatti e primari. La perdita di ruolo dell’umanità suggerita da figurine in ombra, sperdute come insetti, sembra alludere ad un mondo in cui i fili narrativi di un futuro positivo sono disarticolati da qualsiasi senso logico».

11 febbraio 2017

Bresciaoggi

GIAMPIETRO GUIOTTO, «Bresciaoggi»

Dalla sale concentriche al tamburo-cortile, la Casa del Mantegna, a Mantova, è uno spazio di ordine, misura ed equilibrio perfetti, un’idealità geometrica rinascimentale, ora infranta dalla mostra dell’artista bresciano Iros Marpicati, che presenta un’antologica di 50 opere.

L’esposizione (inaugurata oggi alle 17), accompagnata dal catalogo con testi critici di Claudio Strinati e Gianfranco Ferlisi, nel ripercorrere gli ultimi decenni di attività pittorica dell’artista – nato a Ghedi, formatosi all’Accademia Carrara di Bergamo con Achille Funi e diplomato a Brera -, illustra le diverse stagioni dell’alienazione e della solitudine dell’uomo contemporaneo, incapace, fin dal boom economico, di trovare una serena collocazione.

Nella prospettiva sotto cui Marpicati dispone l’esperienza artistica, vive l’ultima esigenza di salvaguardia del singolo, della comunità, della religione e dell’arte; ma questi punti fissi, nei quali l’uomo poteva storicamente riconoscersi e spiritualmente comprendere se stesso, sono stati abbandonati, per la costante minaccia tecnologica che lo costringe alla perdita della sua autentica essenza.

La pittura di Marpicati, nel rispecchiare profondamente l’impersonalità e l’irriconoscibilità della vita che conduciamo, mostra solo minuscoli omini, collocati in spazi dell’assurdo, in luoghi in cui la natura è ormai scomparsa.

Campiture nere, stagliate su spazi bianchi con aperture geometriche dai colori puri, ravvisano (inquadrano) (riquadri di) lamiere e ingranaggi di officine meccaniche che premono sullo spazio vitale dell’uomo.

La realtà è risolta da Marpicati in un rapporto di opposizioni: luce/ tenebre, attivo/passivo, sostanza costruttiva/astrazione pura, abbandono romantico alle percezioni dell’io/nichilismo. Il figurativo viene, così, disintegrato, alla ricerca di una bellezza interna al fare pittura.

Anche l’esile figura efebica del giovane intontito e apparentemente dormiente si riduce nel tempo a sagoma irriconoscibile, a elemento minuscolo che appare e scompare tra architetture taglienti e strutture astratte. Il senso di precarietà della vita, che rendeva l’uomo piccolo e impotente già nel sentimento del sublime romantico, accompagnandolo ad un’indefinita percezione di paura e terrore di fronte all’incommensurabilità di una natura immensa, si converte in Marpicati in sentimento del sublime tecnologico, in vertigine percettiva, perché l’uomo è annientato e ammutolito dalla vastità di un irreversibile disastro ambientale e psicologico. La razionalità geometrica, che si assapora nell’architettura della Casa del Mantegna, rimanda incessantemente alla certezza dell’uomo al centro del mondo, mentre quella di Marpicati lo abbandona e lo scaraventa fuori dal mondo e da se stesso.

21 febbraio 2017

Corriere della Sera

FAUSTO LORENZI, «Corriere della Sera (Brescia)»

Si intitola «Misteri di vita e di forme arcane» la mostra del bresciano Iros Marpicati, invitato dalla Provincia di Mantova alla Casa del Mantegna dal celebre cortile cilindrico iscritto nella dimora cubica, dall’11 febbraio al 12 marzo, a cura di Gianfranco Ferlisi (in catalogo anche un saggio di Claudio Strinati, ex soprintendente del Polo museale romano, info 0376360506, 0376432432, www.casadelmantegna.it).

La mostra ricostruisce il percorso dal 1998 al 2016 che racconta del lirismo doloroso già all’origine dei cicli più recenti composti come parti di una sinfonia: allora Iros Marpicati stringeva in quinte acuminate la figura languida di un giovane nudo assopito, avvolto in un sudario di luce spiritata ottenuta col ricorso all’aerografo d’evocazione sensitiva.

I cicli, dal Dormiente in interni ostili alle Esplorazioni meccaniche, dai Paesaggi inospiti ai Paesaggi premonitori, si manifestano come il divincolarsi faticoso dell’ansia di sutura dell’arte con la vita nella battaglia aspra di bianchi e neri, di bruni e ocra, nell’ultimo decennio anche di colori più vividi e risonanti, ma sempre entro scenari minacciosi.

Alimentò molte illusioni, lungo il Novecento, l’ideologia del connubio tra il cuore e l’acciaio.

Marpicati, nei lavori a tecnica mista su grandi cartoni intelaiati, ne coglie con sgomento lucido il ribaltamento in un universo inospitale di fissità glaciale, sospeso tra l’incombenza minacciosa di geometrie industriali aguzze e taglienti e la deriva irreparabile delle terre emerse verso l’Ultima Thule dell’umanità.

I secchi frammenti di paesaggi e congegni meccanici a campiture nette tra neri densi di tenebra, bianchi di piombo, rossi scarlatti, verdi smeraldini, come residui di tutte le utopie cubofuturiste e costruttiviste e di tutte le aspirazioni totalizzanti degli astrattismi, si scontrano nel concerto visivo duro e martellante, nitido e spietato.

Eppure l’artista paradossalmente recupera l’unità armonica, in opere così dissonanti, nell’anelito visionario e attonito da ultimo romantico che si perde nell’immensità della natura matrigna, col sentimento estremo di inadeguatezza davanti alla potenza distruttiva e autodistruttiva delle vanità umane.

Contribuisce al senso di remoto nel tempo e nello spazio il profilarsi ambiguo di minuscole sagome umane, che paiono oppresse o braccate in una luce di indifferenza o di violenza primordiale.

Spazio e luce sono conglobati, utilizzati come frammenti: l’esistenza tutta si racchiude in un’architettura profonda di buio e di biancore tra sprazzi d’accensioni vivide, come un’armonia da risarcire a un uomo irretito in un ingranaggio nevrotico e assurdo, eppure partecipe d’una residua solidarietà con le cose e i ritmi del mondo.

Questi collage che riducono il teatro del mondo ai suoi elementi minimali, costretti nel rapporto sonoro stridente e calibrato, nel profondo vibrano di un ritmo biologico e psichico.

11 marzo 2017

La Voce di Mantova 

PAOLA ARTONI, «La Voce di Mantova»

Misteri di vita e di forme arcane è il titolo della personale di Iros Marpicati che si apre oggi alle ore I7 negli spazi della Casa deI Mantegna per proseguire sino al prossimo 12 marzo. La mostra ripercorre il lavoro dell’ultimo decennio di Iros Marpicati, presentato da Claudio Strinati, già Soprintendente del Polo Museale Romano, e da Gianfranco Ferlisi, autori dei testi in catalogo. L’ artista, nato a Ghedi e formatosi all’Accademia Carrara di Bergamo, con Achille Funi, e poi diplomato a Brera. Iros iniziò a calcare la scena dell’arte alla fine degli anni Cinquanta, con temi di racconto civile e di protesta. Sullo sfondo di un realismo esistenziale, si materializzava allora un lirismo amaro in grado di realizzare un discorso tagliente su una umanità umiliata e offesa, sulle vite di sconfitti ai margini della storia. E la critica italiana, da Valsecchi a De Micheli, da Kaisserlian a Bruno, ne riconobbe immediatamente il talento. Negli ultimi vent’anni l’autore ha cominciato a rivolgere la sua attenzione alla delicata relazione tra l’artista e la macchina, con paesaggi astratti e geometrici, con la presenza di congegni industriali assillanti e aggressivi, con forme primarie assiderate da un gelo glaciale dove si smarriscono, come fantasmi, le silhouette di minuscole figure umane. Alla Casa del Mantegna sono esposte cinquanta opere che raccontano del tormento umano. Originale e intrigante è la sua rivisitazione d’autore: la tirannia della tecnologia trasformata in anti-provvidenza manzoniana, in incubo fatto di ombre e di sagome minacciose di congegni di fabbrica, di colori piatti e primari. La perdita di ruolo dell’umanità suggerita da figurine in ombra, sperdute come insetti, sembra alludere ad un mondo in cui i fili narrativi di un futuro positivo sono disarticolati da qualsiasi senso logico.

Il pittore vuole dunque che il pubblico osservi alla Casa del Mantegna le sue speciali geometrie con quel loro quid di implacabile.

8 aprile 2017

Bresciaoggi

Gi.Gui. (GIAMPIETRO GUIOTTO), «Bresciaoggi»

Dopo la recente mostra antologica alla Casa del Mantegna a Mantova, Iros Marpicati torna nella sua Brescia, allo Spazio Aref, con una mostra che pone a confronto il consueto dualismo espressivo del suo operare: il mimetismo accurato – fedele alla bellezza del disegno e dello sfumato, utile alla descrizione aIlusiva di un reale allucinato, espresso da corpi ignudi stesi su giacigli inconsistenti – contro l’astrazione di campiture, stese in modo piatto e dai colori primari, che alludono al paesaggio moderno, meccanico e carico di pubblicità.

In questa relazione oppositiva tra realismo e astrazione, coesistenza del bianco e nero e del colore, necessario quest’ultimo a creare il senso dello spazio là dove prima non esisteva, Marpicati sembra delineare il cambiamento epocale degli ultimi decenni, quella svolta, o percezione di perdita della modernità, intesa come stato di emancipazione umana e di progresso tecnologico incessanti. Il titolo «Immagini dalla fine dell’umanità», conferma il disincanto modernista, mentre la lucida coscienza di stare nel mezzo di una crisi decisiva, pur essendo qualcosa di cronico nell’umanità – come diceva Walter Benjamin -, diviene percezione o senso di vertigine perenne.

Così, la lotta espressiva sembra non risolversi mai, mentre dagli anni ’80 in poi la forza epica di Marpicati segna una visione drammaticamente agra, severa e solitaria, che al racconto mesce un’alta protesta civile, senza estremismi verbosi, né alcuna facile predicazione. In quegli anni lontani, un pallido efebo si mostra in totale nudità, pallida anch’essa e vinta da un pudore impenetrabile, stretta da aguzze quinte metalliche.

I paesaggi divengono inospitali – o, meglio, per dirla con Marpicati, «inospiti» -, taglienti e percorsi da ingranaggi meccanici. Così, si esce da un universo umanistico, per entrare in una realtà provvisoria e invivibile, priva di conforti e divinità provvidenziali. L’umanità è espulsa dalla realtà delle cose e, soprattutto, da una verità certa e inconvertibile, mentre i ritmi del mondo, lontani dall’essere solidali con l’uomo, lo macinano. La consonanza con gli altri esseri si fa disperata e il pittore prende coscienza di essere del tutto solo, un giunco che freme nella notte, costantemente minacciato dalla macchina.

20 aprile 2017

Giornale di Brescia 

GIOVANNA GALLI, «Giornale di Brescia»

Allo Spazio Aref in piazza Loggia una mostra antologica rende omaggio alla carriera di lros Marpicati, artista di finissima sensibilità nato Ghedi e formatosi all’Accademia Carrara di Bergamo e a Brera, attivo con successo sulla scena nazionale da oltre sessant’anni e protagonista di una ricerca pittorica d’avanguardia che sviluppa artisticamente riflessioni di sottile inclinazione esistenziale.

Al centro della sua pittura, tesa sul piano dell’impegno civile e percorsa da un toccante e drammatico lirismo, si trovano come motivo dominante l’uomo e la sua condizione di solitudine nel contesto aspro della civiltà industriale, dove la sua identità appare oppressa e alienata in una situazione di precarietà e perdita di certezze. Mentre è ancora in corso (fino al 25 aprile) un’ampia antologica alla Casa del Mantegna di Mantova che ripercorre nel dettaglio tutte le fasi della sua evoluzione stilistica, qui il percorso allinea una ventina di opere di grande formato realizzate dagli anni Cinquanta, che documentano almeno in parte l’originalità del suo stile.

Marpicati accosta in un equilibrio compositivo di evocativa intensità soluzioni opposte: incastra brani figurativi, in cui domina la precisione mimetica del tratto e dello sfumato, a invenzioni astratto-geometriche costruite su ampie e piatte campiture cromatiche, e contemporaneamente alimenta un dialogo simbolico tra l’asciutta pulizia del bianco-nero e la forza dinamica dei colori primari, sciogliendo le rigidità di un’impaginazione razionale con il palpito emozionante di una tessitura lirica.

In queste «Immagini dalla fine dell’umanità» (così il titolo dell’evento) tra «Dormienti», e «Paesaggi inospiti», tra realtà e metafora Marpicati si conferma disincantato spettatore del suo tempo, testimone consapevole dei drammi che lo attraversano.

Ma al tempo stesso ci pare produttore di una dimensione poetica che può concedere spazio al sogno e, in qualche modo, alla speranza di un riscatto nel segno di una ritrovata umanità.