PRESENTAZIONI

MARZO 1959

MARIO DE MICHELI

Il merito dei giovani, quando sono seri, è quello di misurarsi con dei problemi di fondo.

I mezzi termini sono messi da parte: il gioco, il divertimento, la piacevolezza, il gusto non rientrano nei loro interessi. Essi, e a ragione, puntano alto.

E bisogna dire che in un’epoca in cui l’arte è spesso ridotta ad un’abile amministrazione di formule, questo fatto, questo atteggiamento morale ed estetico di un gruppo di pittori dell’ultima generazione, è senz’altro l’aspetto più positivo dell’attuale momento artistico.

Iros Marpicati fa parte di questo gruppo di giovani artisti.

Sembra che egli abbia meditato a lungo una affermazione di Van Gogh: «Non conosco migliore definizione della parola arte di questa: L’arte è l’uomo aggiunto alla natura; la natura, la realtà, la verità, ma con un significato, con una concezione, con un carattere, che l’artista fa uscir fuori e ai quali dà espressione».

Anche Marpicati cioè è un pittore che dà più importanza all’espressione che alla forma.

E’ per questo che, polemicamente, ha ridotto la sua tavolozza quasi in modo esclusivo al bianco e nero. Il colore in questo momento della sua ricerca espressiva gli appare quasi come una «distrazione» da quello che è il centro poetico del quadro.

Egli, in altre parole, concentra tutto lo sforzo creativo nell’enunciazione essenziale dell’immagine, non vuole lasciar margine ad altre suggestioni, ad altre lusinghe. Plastica, ferma, emotivamente densa, l’immagine tende a dilatarsi sulla tela, sino a raggiungere una perentorietà, un’incombenza, un’assolutezza. Questo è ciò che Marpicati vuole: dare grandezza alle immagini del suo sentimento. A questo fine egli sacrifica ogni altro particolare.

Queste apparizioni femminili quasi spettrali, questi girasoli secchi, quasi carbonizzati, queste ceppaie, questi capitozzi di gelsi abbattuti, immersi come brutali fantasmi nella nebbia, sono elementi di una visione drammatica. Non si tratta però di un dramma dell’angoscia.

Non mi sembra difficile infatti scorgere in queste figurazioni un accento di energia, di virile carattere. Avvertire della presenza del dolore, del dramma, dell’amarezza del mondo e dare all’avvertimento il massimo di intensità: questa è la poetica di Marpicati.

E si veda come già egli possegga i mezzi per fare uscir fuori dai suoi temi la verità che gli sta a cuore: un disegno sicuro, il senso dell’impostazione, l’intuizione dell’immagine figurativa.

Un espressionista dunque? Diciamo di sì: forse oggi solo con la violenza dei sentimenti si può vincere la cinica aridità della pittura «pura». Ma un espressionista che vuole riempire il proprio individualismo con le voci e il calore degli «altri». Ecco perché Marpicati non è un informale: perché non vuol credere alla solitudine.

Quindi la sua pittura è discorso, è comunicazione, non soliloquio esistenziale.

Sino a che punto egli realizza le premesse della sua poetica?

Marpicati è alla sua prima mostra personale, che ha deciso di tenere a Brescia, sua città d’origine.

E’ dunque alle soglie della sua carriera artistica. Di lui possiamo dire che ha forza e talento: possiede dunque la «materia prima» su cui costruire la sua personalità d’artista.

Quanto ai risultati di questa mostra, in alcuni casi, ci sembrano già «risultati»: i primi «risultati» di un giovane che della pittura ha la passione e la vocazione.

NOVEMBRE 1961

GIORGIO KAISSERLIAN, L’arte di Marpicati

Quando la pittura non vuole rappresentare più figure e paesaggi e non intende crogiolarsi in esercizi introversi, essa presenta allora delle altre strutture, impensate, inventate, sconcertanti. Dal primo Duchamp sino agli sviluppi più interessanti del surrealismo, vi è nell’arte d’oggi tutta una fenomenologia di oggetti inventati che è ben caratteristica del fervore creativo del tempo nostro.

Iros Marpicati si inserisce in questa traiettoria dinamica, che dal surrealismo va verso un neo organicismo pre-figurativo, pieno di fermenti. Se le sue composizioni meno recenti evocano spesso delle forme dall’aspetto meccanico, quelle più nuove fanno pensare a degli oggetti naturali, sia pure insoliti. E ci pare che da essi si sprigioni una carica vitale che potrà domani concertare delle sorprese.

Ci piace di sottolineare come Marpicati ceda l’iniziativa, nel corso del suo lavoro, solo al suo impulso creativo. Quello che gli importa è solo enucleare un contenuto, e dare la massima evidenza alle forme recate.

Non si troveranno qui quelle raffinatezze coloristiche in cui si avvolgono gli oggetti di Bertini, o le ramificazioni abusive che innervano le strutture di Sonderborg, ma tensione operativa e senso plastico. Verso quali orizzonti sono tese queste sue forme dall’aspetto organico? Il mondo magico e fatato del surrealismo è scavalcato dall’ansia creativa che non si accontenta più del brivido di uno stupore o di un incanto. Si cammina forse in terra incognita, in terra da esplorare. Marpicati con la sua opera testimonia questa situazione viva e stimolante della giovane pittura, carica di avvenire.

MAGGIO 1964

MARIO DE MICHELI

Oggi, per un artista, non è possibile restare indifferente davanti ai problemi del nostro tempo. Certo, sino all’ultimo, non mancheranno i difensori dell’arcadia. Ma la verità è che gli artisti più vivi e sensibili, per un verso o per l’altro, oggi finiscono per trovarsi inevitabilmente alle prese coi temi più brucianti e più attuali, con le preoccupazioni che dominano la coscienza contemporanea. Così è per Iros Marpicati, un pittore dell’ultima generazione che, attraverso varie inquietudini di natura intellettuale e morale, tutt’altro che finite, è arrivato ad una espressione allarmante dei motivi che agitano la nostra storia.

Nei suoi quadri egli affronta infatti quello che è il nodo di tutte le questioni della società moderna: l’integrità dell’uomo e ciò che la minaccia. Le sue tele sono un’immagine drammatica di questo conflitto che vede l’uomo aggredito, lacerato, traumatizzato dall’ingranaggio mostruoso, cresciuto a vista d’occhio, della nostra civiltà della tecnica, dei consumi, delle programmazioni: un ingranaggio anonimo, che va occupando ogni giorno di più gli ultimi spazi di libertà, usurpando ogni margine d’indipendenza.

Gli assurdi meccanismi, le gigantesche e complicate viscere metalliche che, nei suoi quadri, afferrano, travolgono e ingoiano l’uomo, non sono dunque che la rappresentazione emblematica di una condizione reale. Sono macchine misteriose, labirintiche, macchine che nessuno ha mai visto: ma se per un momento riuscite a chiudere l’orecchio ad ogni altro rumore diversivo, forse ne potete udire il rombo cupo e incessante fuori e dentro di voi.

Quella di Marpicati non è dunque una vaga rivolta neo-romantica contro la tecnica, bensì una cosciente enunciazione dell’usura, dell’attrito, dell’offesa a cui una società disumanizzata sta sottoponendo con metodi scientificamente elaborati, con esatte statistiche, con inchieste circostanziate, l’uomo e i suoi sentimenti, l’uomo e il suo respiro quotidiano.

Marpicati è un pittore energico, che ha un suo piglio sicuro e largo. Egli ha fatto una serie di esperienze plastiche avanzate, al limite dell’astratto, ma l’impegno ad un discorso più preciso, meno ambiguo e neutrale, lo ha ogni volta riportato sulla strada dell’immagine, di un linguaggio ancorato ad una esplicita comunicazione. Di questa sua acuta esigenza sono testimonianza i disegni dedicati alla tragedia del Vajont: in essi si possono scoprire le ricche possibilità espressive di cui Marpicati è dotato, oltre alla passione umana che lo anima: elementi che gli hanno permesso e gli permettono di giungere alla sintesi delle sue tele più recenti. Ma questi stessi disegni dimostrano anche come la sua ricerca sia vera, come sia condotta con rigore, e come, dietro i risultati dei suoi quadri, ci sia un lavoro lungo e serio, lontano da ogni forma di “svago” formale.

Questo è quello che mi importava dire presentando questa sua mostra. Gli eventuali riferimenti filologici riscontrabili in queste opere ognuno li può trovare da sé. Ciò che conta è che in questa sua “personale” Marpicati riconferma la fiducia che volentieri gli era stata data quando, quattro o cinque anni fa, proprio qui a Brescia, presentavo la sua prima uscita in pubblico. Oggi non solo riconferma il senso del suo lavoro, ma ne ha senz’altro intensificato il valore.

1983

ELVIRA CASSA SALVI

Queste immagini di Iros Marpicati vengono da lontano. Quindici anni fa queste stesse immagini davano un volto di rara potenza emotiva alla tragedia del Vajont; oggi le alte lamentazioni, l’umanissima pietas di questa sequenza danno voce sacrale all’angoscia per una violenza che non è meno straziante di quella, e non è episodica, anzi assidua, diffusa, ombra assillante che non si stacca da noi, da ognuno di noi neppure per un passo, per un’ora: l’universale violenza, più subdola che clamorosa, di cui sono intrise le anime di tutti, le cose ovunque; l’universale violenza che ci sta addosso, che fa scempio incessante, quotidiano di tutto ciò che nell’uomo è nobile.

Un grido lacerante di partecipazione si leva da questi fulminanti primi piani. Un corteo di prèfiche, di lamentatrici, di neri scialli – luttuose bandiere della pena universale, soffocante – un lugubre drappello legato dallo strazio viene dalla terra che la violenza ha invaso, devastato. E va verso l’ignoto, varca la soglia di un infinito esilio, luogo di un’altra tenebrosa violenza.

Nei volti, nelle mani si leggono i segni d’una stirpe nobile; donne smagrite, diafane, carne cerea che in trasparenza lascia affiorare il biancore dello scheletro; luci gelide, spettrali che giocano con l’ombra più nera un gioco di lame taglienti e di acuti, raggriccianti stridori.

Oggi questa non è pittura visionaria, è realismo: quello stesso che a Marpicati suggeriva vent’anni fa quel suo indimenticabile canto, ancora in bianco e nero, sui ceppi, sui gelsi immersi nella neve; grandi carboni informi che non si sono accesi, non hanno dato fuoco e calore, sopraffatti dal gelo e dalla morte. La natura anticipava allora il lutto dell’umanità violentata, sempre più violentata.

Nell’orrore di alcuni sguardi, nello scatto di alcuni gesti è forse possibile cogliere un cenno di protesta, di rivolta? Forse si. Ed è in questi cenni che mette qualche esile radice la vita di domani, l’immancabile vita di un domani che rinasce dall’esilio.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nella pagina 43 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

1987

CARLO OCCHIPINTI

La pittura di lros Marpicati trova la sua giusta collocazione in un mondo psicanalitico la cui evoluzione è ancor oggi oggetto di interpretazione.

Qui nulla è lasciato al caso. La visione dell’arte è diretta emanazione di concezioni sulla vita che richiamano dall’inconscio esperienze di dolore universale.

Ma dove l’artista supera gli altri è nell’evocazione magica di una realtà «storicamente» perenne nella sua immobilità, ma pur sempre viva come scena in cui si svolge il dramma dell’uomo. Proprio per sottolineare quel senso fuggevole e numerico della realtà, che comprende anche il destino di oggi e di sempre, le tele di lros Marpicati, avvolgendo con una morsa soffocante uomini e natura in un etere primordiale, rimandano a domande di fondo ed esistenziali. Eppure, è proprio qui che interviene la sapiente mano dell’artista che riesce a diluire l’amara esperienza individuale in un dolore cosmico, capace di emettere luce e trasparire nell’apparente immobilità delle figure. Tutto fa parte quindi di una dimensione dialettica che sfocia in una visione nuova ed originale dell’arte che Marpicati pone a ricerca della verità.

1988

MAURO CORRADINI

…Marpicati di quella stagione fu un protagonista, e ne sono prova i riconoscimenti ottenuti a Suzzara, dove è premiato negli anni 1956, 1957 e 1959.

I riferimenti diretti – si tratta qui di un clima vissuto all’unisono – sono riconducibili essenzialmente a Francese e Vaglieri. E basterebbe sottolineare l’analogia tra il disegno marpicatiano della Contadina che beve (1956), con quello di Francese del Bracciante che dorme (1957) per rendersi conto del medesimo clima culturale, della medesima tensione espressiva.

Marpicati ha come riferimento il dramma esistenziale di questi contadini inurbati, il senso di una disfatta che ritroveremo – mutati i climi ed i tempi – sul fine degli anni Sessanta in un artista come Cottini; è il dramma della riconquista industriale, e dunque l’utilizzazione, in senso sociale, del discorso artistico.

Ma, sia ben chiaro, non siamo ai “manifesti”: la tensione emozionale che travolge le barriere espressive dell’accademia serve a costruire nuovi equilibri che vivono sulla drammatica esplosione di un segno che si fa sofferta rappresentazione.

1991

MARIO DE MICHELI, GIORGIO MASCHERPA, GIORGIO SEVESO (curatori); MAURO CORRADINI (collaboratore dei curatori)

…Alle matrici milanesi sembra ricollegarsi anche Iros Marpicati; studente a Brera, è più attento alle inflessioni di autori vicini al clima culturale cui ci riferiamo: viene da pensare a certe asprezze realiste di un Giansisto Gasparini, o alle vicende plastiche di un Franco Francese.

Certamente Marpicati si muove sulle dimensioni di una realtà contadina rivisitata in chiave esistenziale; le sue figure femminili della Padania, la grande madre nera dai piedi robusti, sembrano recuperare in chiave esistenziale l’urgenza espressionista della cultura del tempo. Marpicati viene dunque a realizzare una sorta di “ponte” tra la cultura contadina, cui era ancorata la maggior parte dell’immagine realista, e la cultura urbana, che si affacciava prepotentemente attraverso la nuova generazione esistenziale, certamente figlia della dimensione urbana che, anche sociologicamente, stava diventando nettamente prioritaria. Se dunque il gigantismo delle sue figure poteva rapportarsi alla struttura narrativa del realismo precedente, la deformazione fisica e fisionomica veniva accentrando lo sguardo e la tensione su una diversa inquietudine, più prossima alle angosce esistenziali che non alle tribolazioni cariche di dramma delle vicende contadine del realismo precedente.

Il successo ottenuto dalle opere di Marpicati in un premio come quello di Suzzara non fa che confermare questa sorta di sottile collegamento tra una linea realista, a Suzzara dominante fino alla fine degli anni Cinquanta, e i nuovi frutti che le giovani generazioni stavano mettendo in campo, all’interno delle stesse declinazioni del realismo. Ed è vicenda comune a molti, di essere interpreti, all’interno della storia del premio padano, di una lenta e percettibile evoluzione formale e culturale, una sorta di trasformazione nella continuità di alcune presenze e persistenze.

OTTOBRE 1996

MARIO DE MICHELI, Il ritorno di un artista 

Quanti anni sono che Iros Marpicati non è presente con una mostra nella sua Brescia? Almeno dal 1964. Eppure ha sempre dipinto, ha sempre ricercato le immagini delle sue inquietudini e dei suoi acerbi tormenti. A suo tempo, le due uniche mostre ch’egli ha fatto, sono stato io stesso che le ho presentate: era il marzo del ’59 e il maggio del ’64. Dopo s’è rinchiuso nella sua solitudine, indagando i percorsi della propria coscienza e della propria anima. Ed ora, finalmente, eccolo riapparire nel corso di questo ottobre 1996 con un gruppo di quadri esemplari. E sono ancora io a presentarlo.

Gli anni, ahimè, passano per tutti. Oggi Iros ne ha 63, ma eccolo qui con l’energia di sempre. Forse, dovendo ancora scrivere un testo per lui, potrei addirittura usare una serie di osservazioni che mi erano servite per quella remota e prima presentazione. Allora dicevo che i giovani hanno il merito di misurarsi con dei problemi di fondo: i mezzi termini li mettono da parte: il gioco e il gusto non rientrano nei loro interessi.

Ecco, vorrei dire che per Iros la questione non è mutata: ancora oggi cioè i problemi ch’egli si pone sono della stessa natura, appartengono alla medesima situazione. Non è un caso se il primo quadro che ci presenta parte da una citazione di Guernica. In altre parole la sua intenzione è quella d’avvertirci che la sostanza del suo discorso non è mutata, anche se egli non è mai stato un “picassiano”: non è mutata perché rimane legata all’impegno terrestre dell’uomo, alle sue preoccupazioni, ai suoi assilli profondi.

È per questo che ogni suo quadro è un esplicito “ecce homo” costretto tra paesaggi di astratta e crudele aggressività. Ogni corpo ch’egli dipinge, quasi senza colore, è quindi come una vittima sacrificale. La violenza della “civiltà” ci colpisce, non ci dà scampo. Intorno a noi ci sono le trame di città spietate, dove siamo assediati da perversi aculei, da lame taglienti che ogni giorno ci feriscono. È la condizione generale da cui siamo afflitti.

Ecco: la giovinezza si spegne, si allontana, ce ne rimane solo il ricordo, come l’ombra di un tempo ormai passato per sempre. Questo è dunque il canto di Iros, anzi, il rimpianto. In tale senso le sue figure appaiono dolorosamente distanti. I corpi nudi ch’egli traccia sulla tela appartengono a un momento ch’egli deve considerare solo come nostalgia e memoria. È per questo che ci sembrano così separati da noi, dalla nostra condizione: immagini dolcissime, ma remote.

Ora le riguardo: la sua perizia s’è certamente raffinata, s’è fatta più sottile e più acuta: non c’è dubbio; ma è il sentimento dell’innocenza che ne domina tuttora la rappresentazione. Chi osa dunque punire una tale innocenza? Le regole, le convenzioni? L’accento col quale il mito della bellezza s’impone è ricco di suggestioni, benché l’offuschino i motivi dell’ipocrisia. Questa è quindi la ragione per cui i personaggi di Iros sono drammaticamente atteggiati. Ho detto: “ecce homo”: come feriti, spenti, privi di vita. Ma la bellezza di quei corpi ignudi, sia pure così offesa, rimane e non cessa di richiamare la loro vitalità.

Così, dunque, egli presenta le sue opere in questa nuova mostra a tanta distanza di anni: i suoi “nudi giovanili” e i suoi “paesaggi urbani”. Spesso questi paesaggi hanno caratteri industriali e metallici o fanno pensare a vecchi strumenti di tortura, a laceranti offese della carne, a coltelli per trafiggere. Più spesso a enigmatici segni di persecuzione. La suggestione tuttavia è sempre la stessa, riferendosi sempre ad un senso ostile nei nostri confronti.

Quanto ai suoi “nudi” è invece la tenerezza che domina, la delicata istanza della passione che pretende il riscatto. Patiti e amorosi, questi giovani sono invasi da un’ebbrezza di morte. È una sfida quella che ci rivolgono. Ed è appunto così che Iros li dipinge. Custodirne l’immagine è quindi un impegno da non lasciar cadere: così egli li conserva per sempre nelle sue immagini.

Con emozione noi possiamo solo guardarli, perché sono il tributo a un incanto che ormai da anni abbiamo perduto.

MAGGIO 1998

MARIO DE MICHELI, I quadri esemplari di Iros Marpicati  

L’ho presentato nel ’59, nel ’64, nel ’96. Ed ora scrivo ancora di lui. Non faccio fatica a individuare i temi ch’egli propone anche oggi, dal momento che sono quelli di sempre: l’uomo nelle difficoltà della nostra esistenza. Naturalmente Iros è andato avanti nella sua indagine: i problemi di oggi sono più difficili e complicati di ieri. Il merito di affrontarli in maniera diversa è legato alla profondità e alla sensibilità davanti alla trama dei fatti.

La sua perizia si è ancora più raffinata dall’ultima esposizione fatta due anni fa a Brescia, dove vive e ha il suo studio. Oggi i problemi che si pone sono della stessa natura: la violenza della “civiltà” che ci colpisce e non ci dà scampo. È per questo che ogni suo quadro è un esplicito “Ecce homo” costretto tra paesaggi industriali di astratta e crudele aggressività. Così ogni corpo ch’egli dipinge, quasi senza colore, è come una vittima sacrificale, che vede intorno a sé città spietate dove ognuno di noi è assediato.

Questa è la ragione per cui i suoi personaggi sono drammaticamente atteggiati, come feriti, spenti, privi di vita. Ma la bellezza di quei corpi nudi, così offesi e violati nella loro integrità, rimane e non cessa di richiamare la loro vitalità. Così dunque egli dipinge i suoi nudi dove è la tenerezza che domina, la delicata istanza della passione che pretende il riscatto. Patiti e amorosi, questi giovani sono invasi da un’ebbrezza di morte. Ma, come si sa, il poeta e l’artista, anche quando descrivono la morte, cantano la vita: ed è appunto così che Iros li rappresenta, anche se hanno mortali sembianze.

È l’integrità dell’uomo ch’egli rappresenta, minacciata da ogni parte da ostili ragioni. La nostra integrità è turbata, oppressa e aggredita: è questo che Iros rappresenta nelle sue immagini, sono i sentimenti dell’uomo, il suo respiro quotidiano. È in questo modo ch’egli esaudisce il suo impegno: con una appassionata e intransigente verità.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nella pagina 55 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

GIUGNO 1998

VALERIO TERRAROLI

Il valore artistico di Iros Marpicati è caratterizzato da una tecnica raffinata e da un equilibrio compositivo di notevole qualità formale e di elevata concentrazione cerebrale. Il risultato di tale impegno, e di così assidua e lunga ricerca, è oggi qui, davanti agli occhi del pubblico: un pubblico aggredito da ogni parte da un’overdose di immagini, da una fantasmagorica policromia, da un facile rapporto consumistico con l’arte visiva; un pubblico che per entrare in sintonia con l’opera di Marpicati deve concentrarsi e liberarsi da aspettative edonistiche e da facili letture ad effetto. L’opera, e non è involontaria retorica l’impiego del termine al singolare, è appunto un insieme omogeneo e articolato di immagini indissolubilmente legate tra loro: una partitura musicale abilmente giocata su ricorrenti assonanze e discordanze, dove il singolo tema o titolo o racconto perdono di significato individuale per esaltarsi e completarsi nello scorrere lungo le pareti dello studio o di una galleria, o nelle pagine di un volume. Ciò che vediamo non è dolcemente contemplativo, non sapientemente drammatico, non estraneo al senso della vita, ma è rigorosamente e lucidamente tragico. Nel percorso creativo di Marpicati si percepiscono infatti gli spasmi del dolore, le contraddizioni della contemporaneità, la difficoltà di comunicare, eppure tutto ci appare come decantato e ridisegnato in una forma estetica che sceglie come codice comunicativo l’insistita bicromia, la struttura a trittico o dittico di buona parte delle composizioni e, soprattutto, la forza espressiva del segno con evidenti affinità, certo non inconsapevoli, alla pittura giapponese e alla poesia ermetica.

Il primo approccio con i pannelli di Marpicati (poiché non si tratta di tradizionali dipinti) si gioca a livello materiale ovvero nella ipersensibilità che l’Autore mostra nell’impiego degli smalti spray, con i quali ottiene sfumature affini agli acquarelli, nel sapiente e sicuro impiego del carboncino, nell’utilizzo di sagome e mascherine in cartoncino ritagliato in forme rigorosamente astratte e nella stratificazione polimaterica di frammenti di legno, di cartoncini e carte ritagliate al fine di creare giochi tridimensionali sulle superficii.

Il secondo approccio è più profondo e complesso poiché ci obbliga a contemplare immagini forti e contraddittorie: corpi sprofondati in un sonno ipnotico o ricomposti nell’abbandono della morte, corpi all’apparenza edonisticamente statuari, ma insieme sofferenti e marcati da tagli e ferite appena venate di colore, contrapposti o innestati o assediati da composizioni rigorosamente astratte. Ed è questa componente la più affascinante del lavoro creativo di Iros Marpicati, proprio nel rifiuto di un qualsiasi legame o ambigua allegoria con e della realtà sensibile, nella ricerca della sacralità della figura e nella sua dissacrazione attraverso il contrappunto di un’astrazione raffinata, tutta mentale: equilibrata sinfonia di pieni e vuoti, di luci ed ombre, di improvvise accensioni cromatiche e di lacerazioni impreviste. Ed è difficile non farsi cogliere dall’evidente analogia fra i trittici e i dittici di Marpicati e le iconostasi bizantine, tra la sacralità iconica delle pale d’altare con i martirii dei santi e la laicità, altrettanto sacra e tragica, delle sue composizioni aniconiche. In questo senso il trittico con al centro il corpo abbandonato e ferito di una bambina e ai lati le emanazioni di tagli, esplosioni e lacerazioni, che non può non ricordare devastanti eventi contemporanei, è una composizione tragica. E la tragedia è appunto la sintesi creativa e propositiva di una presa di coscienza del dolore umano e della follia degli eventi: è lo strumento poetico, anche da Marpicati utilizzato, che facendo rivivere metaforicamente la nostra storia e le nostre angosce, ci permette di capire noi stessi.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 57 e 58 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

2000

ROSSANA BOSSAGLIA, Iros Marpicati – Un artista coinvolgente

Sembra, nelle opere più recenti di Marpicati – che peraltro sono in connessione stretta con quelle della produzione alle spalle, sia nelle tematiche sia nelle modalità formali – sembra, dicevo, che la sua interpretazione del reale si sia leggermente addolcita, e che alla tragicità degli spasimi si sia sostituito un liberatorio estraniamento dalle sofferenze.

Il tema di base è sempre il medesimo: in una società tecnologica, dove non trova posto, secondo la raffigurazione dell’artista, qualche stralcio di libera natura e dove la vita come tale sussiste nell’oblio, i dolci corpi di giovani che vengono raffigurati mantengono intatta la loro bellezza; il sonno nel quale essi si sprofondano non è tanto il limite esausto dello strazio quanto il riparo da un confronto rifiutato. E nel sonno essi acquistano una nobiltà statuaria, come dire una classica purezza, mentre rimane intatta la loro fresca carnalità; la difesa dalla realtà diretta in un oblio positivo: non è l’addio, anche se l’estraniamento potrebbe caricarsi di significati negativi; la freschezza dei corpi appare intatta, il respiro leggero. Non per nulla, nell’unico volto rappresentato con gli occhi aperti, volto di un giovane dai tratti modernissimi, ricavato dall’immediata realtà, l’espressione è attenta e preoccupata ma non impaurita né tragica; è anzi colma di una forza che potremmo pensare anche propositiva.

I personaggi sono, appunto, tutti giovani; e soltanto nell’immagine della bambina, che si riallaccia a un tema iconografico di qualche anno addietro, ravvisiamo un empito di sofferenza. Questo non significa che il discorso di Marpicati si sia fatto più ottimista: basterebbe cogliere i riferimenti a Kafka di alcuni soggetti e la citazione del lamento di Orfeo sotto l’immagine della morta Euridice. Direi piuttosto che la tematica non appare più quella ispirata al rapporto con la realtà del mondo industriale, bensì si colleghi a una riflessione generale sul senso della vita; non è più una polemica, bensì una meditazione.

Sul piano puramente formale, oltre che iconografico, la stretta relazione con le opere precedenti – con le quali queste sono, come si accennava, in diretta continuità – lascia tuttavia il posto a una stesura più delicata e leggera. Sarà anche perché nella presente occasione sono raccolti soprattutto disegni; certo è che si ravvisa un’umbratile finezza, frutto di un’esperienza professionale d’alta levatura e di una sensibilità espressiva dai variati timbri, in questo caso volutamente tenuti in sordina. Tavolozza pressoché monocroma, matita a punta sottile, rappresentazione di belle figure addormentate…: un artista seducente, certo; ma insieme di polso forte, in un raro coinvolgente connubio. L’arte è un modo per fissare la bellezza del caduco, nel mentre che ci invita a riflettere sul suo significato.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nella pagina 59 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

NOVEMBRE 2000

GIORGIO SEVESO, Il film di Iros Marpicati 

All’inizio è il brivido glaciale della morte. O meglio, l’alito inquietante di una maestosità negativa, di una immobilità impassibile che come un lucido sudario di plastica aderisce a questi suoi corpi di fulminata e nuda bellezza.

Abbandonati al loro turbamento, essi si offrono all’esausta attenzione di noi spettatori e la stravolgono, rendendoci prigionieri attoniti, smarriti nel gioco di specchi perverso e sublime che Marpicati sa disporre sui suoi cartoni intelati. Di rado nella nostra pittura d’oggi l’eterna copia Eros Thanatos, i due lati fatali dell’umanità, si sono potuti specchiare nel medesimo ordine d’immagine così a proposito come nel suo caso. E di rado quadri come i suoi, che non potrebbero essere più figurativi e più contemplativi, più “pittorici”, possono apparire così poco iconici, così poco didascalici, esibendo, invece, tutta l’astrattezza dinamica delle figure di un film, tutta la velocità fulminea e l’effimera indeterminatezza dei fotogrammi che scorrono nel fascio luminoso della proiezione, condensandosi, poi, solo sul fondo della nostra rètina a suggerire la soda presenza di un concreto simulacro della realtà.

Le sequenze, infatti, si dispongono qui come su uno schermo traslucido di sottostanti lontane superfici, e si inseguono tra dittici e trittici, s’intersecano l’una con l’altra, flashback dal ritmo tagliente ossessivo, inquadrature di purezza e insieme di sensi accesi, torbide Vanitas indurite dai fotogrammi della cronaca e della Storia.

La polpa delle immagini è livida, ingessata, poco più che monocroma, matita a punta sottile, spray velati di smalti, ombre sorde in un abbandono di sagome e mascherine ritagliate, di sfondi acuti come lame e taglienti come rasoi…

Immagini e figure, queste di Marpicati, che per il controllo teso della tecnica, per la continuità e la coerenza straordinarie distillate in tutti questi anni di fervido lavoro, simultaneamente riportano alle sorgenti stesse del fare pittorico, alle radici della dimensione comunicativa del dipingere contemporaneo o, in altre parole, se volete, alla genesi delle sue conseguenze liriche. Perché in filigrana a tutto il suo lavoro c’è, in un dipanarsi che assomma e riassume stilemi che vanno dal clima milanese del Realismo esistenziale degli anni Cinquanta-Sessanta alla Nuova figurazione degli anni Settanta, dall’oggettività allucinata dei fotogrammi di cronaca alle strutture visive puramente astratte e neocostruttiviste, c’è, dicevo, un forte, sensibilissimo sentimento della pittura.

C’è un senso trionfante del dipingere, che muove ogni sua sensibilità verso la compiutezza di un gesto sovranamente espressivo, lirico, in presa diretta con una assorta, pensosa ideologia del mondo (quasi direi una religione del mondo) che è parte fondativa, determinante della sua ispirazione e delle sue scelte di linguaggio e di temi.

Ecco, appunto, la continuità, la tenuta della sua pittura in tutti questi anni, dalle prime prove giovanili fino a questo inizio di soda, emozionante maturità. Ma eccone, insieme, l’intrigante suggestione, la seducente efficacia di catalizzatore motivo e psichico in questi nuclei reiterati di segni e figure. Nuclei significanti per via di rastremazioni, che scavano percorsi archetipi nelle nostre più intime sostanze antropologiche. Che ci chiedono di intervenire, che ci chiedono di sentire. La mano, il cuore, la mente (tutta la mente beninteso, quella conscia e quella inconscia) di Marpicati dipanano dunque una lunga, sterminata sequenza di itinerari della memoria e della cronaca, scoprono regolarità e difformità, delineano ritmi e ripetizioni, disvelano significati, esiti emozionali. Proiettano su questi fantasmi i fantasmi loro propri, dissolvenze enigmatiche dell’immaginario come per una sorta di drammatico lessico esistenziale, diari di emozioni da leggere con commossa partecipazione, da osservare senza fretta, dando loro tutto il tempo che occorre per sedimentare, per decantare ogni loro interna sfumatura.

E da qui ecco che, come per una scrosciante allegoria visiva, questi suoi “negativi” riconsiderati dal fondo del sentimento più acuto, queste sue monadi sopraffatte dall’intuizione delle cose, immediatamente fermano e coagulano l’emozione in anatomie scandite, in sudari misteriosi, in impronte corporali sofferenti abbandonate in un languore di mancamento, reperti di uno scabroso puzzle psicologico di straordinaria consistenza tattile. Serie di immagini che s’inseguono e si ripetono, e che, appunto nella ripetitività, giocano ogni loro significato, ogni fibrillazione evocativa in una poesia radicale, in un lirismo forte, solidale con il dolore degli uomini, con l’atrocità degli eventi.

Le mani e l’occhio di questo nostro inaudito regista, infatti, che pur conoscono lampi di inarrivabili dolcezze, si applicano a spremere ogni conseguenza dal dramma del mondo. E allora la grazia fugace di un viso, l’abbandono morbido e tenero di un corpo sempre si accompagnano al basso continuo di un tono irrimediabilmente amaro, come la cenere fonda e inevitabile che segue il breve guizzo di una fiamma.

Scossa di crudeltà e di aggressioni, si rapprende in lui una visione insistìta, reiteratamente evocata, un lungo film, appunto, raccontato in primo piano, con l’obiettivo fisso sulle circostanze del nostro presente, sui materiali emotivi di una vita inquieta e allarmata.

Dunque è un racconto, il suo, come di una sorta di veglia dolente, limpida metafora che nel fascino della poesia di figura pretende un riscatto per i destini minacciati dell’uomo di oggi, della sua integrità? Certo. E in questa veste di testimonianza, di impegno poetico risentito e risoluto, di schieramento totale, insomma, c’è qui una grandezza semplice, disarmante, persuasiva. Ma questo suo film fatto di immagini sofferte e sublimi, fatto di brividi e di febbri, è pure un’altra cosa: è anche un canto alla sovrana potenza della pittura, un inno alla bellezza pura, alla bellezza senza fine e senza scopo, alla sfinita beltà del dipingere. Del dipingere come si parla e si sogna, come si ama e si soffre, come si vive.

È il film di Marpicati, oggi come ieri girato dalle parti di una verità piena, densa, davvero sempre più fruttuosa per emozione e limpidezza di poesia.

MARZO 2001

MAURIZIO BERNARDELLI CURUZ, Marpicati, la vittoria dell’uomo che soccombe 

Il pittore lombardo, fondendo astratto e figurativo, racconta in polittici postmoderni la vicenda dell’umanità contemporanea, schiacciata da paesaggi industriali che rappresentano la consumazione di un’era ad un tempo sovrumana e disumana – La presenza della figura, pur compressa e raggelata, infonde la speranza dell’avvento di un nuovo umanesimo che inizia proprio dalla cognizione del dolore.

Marpicati canta la Deposizione del Novecento, il secolo che, dopo aver distrutto l’idea di un dio che albergava nelle nostre privilegiate membra, ha smembrato il corpo, l’ha ridotto a un lacerto biochimico, a una materia prima per saponificazioni, a carne da cannone, esaltandone, al contempo, la grandiosa transitorietà dell’effimera bellezza, finalizzata ancora al consumo. La tragedia raggelata nelle opere di Marpicati – è morte? È sonno? È velo di sogno appagante? È la pace dopo un incubo quel rilasciare le membra sotto il velo di pace apparente che avvolge le sue figure? – ricolloca comunque l’uomo topograficamente al centro dell’opera.

Esiste una persistenza in Marpicati, a livello di impaginazione.

Ciò che persiste è la centralità della figura, nei dittici o nei trittici, verticali od orizzontali che siano, nei quali le due ancone laterali, con effetto di schiacciamento dell’umanità, rappresentano paesaggi taglienti, postindustriali, gigantesche conchiglie e pinnacoli d’acciaio brunito e lame di ferro rese acute dalla consunzione di vecchi serbatoi della seconda rivoluzione produttiva, mentre spesso si frappongono all’aria libera vetri lattescenti traversati da una lunga incrinatura che ricordano le finestre degli uffici di cantiere, odorosi di inchiostri e di cherosene; e ancora, là fuori, sciabolano torri bituminose da suburbio industriale, che si conglomerano in una mostruosità sublime e disumana, mostrando la vergogna del corpo meccanico della modernità e l’anatomia fredda e la giugulare recisa dei vecchi impianti e la carotide dell’opificio e il sistema linfatico degli opifici colmi di residui carbonosi. E’ questa, grandiosa e ossessiva, la parte astratta dell’opera di Marpicati, lavorata con maschere e smalti, in un nitore della stesura che assegna ai quadri una forza tagliente.

Il centro dell’opera – parte che i pittori antichi riservavano alla figura di Cristo o dei Santi – è occupato dalla figura umana, resa con un disegno di straordinaria levità: sono in genere giovani efebici o bambine dal volto di porcellana o di marmo (che rinvia tanto alla pietra polita e “plasmata” di Wildt in direzione dell’effetto-uovo, quanto ai bassorilievi dolenti della scultura classica, nei quali le giovinette danzavano per sempre la propria grazia finale in direzione dei pozzi acherontei), e giù le membra, in genere definite soltanto sino al torso, quasi bruciate nella parte finale del ventre, combuste come carte veline prive di viscere, eppure dominate da un colore vagamente aurorale, un incarnato madreperlaceo appena intiepidito dal sole, che lascia intuire, sotto tono e sotto pelle, il lento fluire del sangue.

Questo contrasto tonale tra l’umano che soffre e il disumano che s’appaga delle proprie crudeli geometrie, anche se giocato entro una gamma di accordi cromatici attenuati sino tendere a stesure quasi monocrome, è assai evidente, sicché i “polittici” di Iros Marpicati subito inducono lo sguardo a confortarsi nell’umano, pur nell’umano che soffre; quindi, se l’informale era fonte di inquietudine, il figurativo offre lo spazio per la contemplazione di un domestico, riposato dolore.

I polittici dell’artista possono inoltre essere letti, al di là del piano sinottico, come ancone temporalmente successive, che alludono a un’abbozzata struttura narrativa.

Il rapporto tra uomo e civiltà della macchina – diventata poi civiltà dell’industria e del consumo – era ben evidente sin dalle prime opere, che traevano spunto da riletture di elementi di cronaca.

Ricordiamo a questo proposito “Incidente n. 2”, un ampio olio su tela del ’64 – ’66 in cui una testa spiccata, simile a una maschera da tragedia greca rotolata dal palcoscenico, precipita da una struttura di nodose meccaniche. Si parlava, allora, di tragedia, d’un evento rapido e definitivo, successivamente al quale la vita tornava ad essere se stessa. Con gli anni, la cognizione del dolore in Marpicati si slega da eventi riconoscibili e s’estende. Non è il dilaniante morso dell’automobile a schiacciare l’umanità nell’incidente – un evento straordinario e drammatico che interrompe improvvisamente il regolare svolgimento di un’azione – e a proclamare, solo in un attimo, la violazione, che non è soltanto fisica, ma soprattutto spirituale, dell’integrità umana. Il paesaggio crudele delle città – e mutuiamo questa definizione dal titolo di un’opera del 1993 – è pervasivo, costante, fisico e metafisico ad un tempo.

Non appartiene cioè al semplice orizzonte dell’architettura degenerata, ma, estensivamente, a un deteriore modello di vita. Lo schiacciamento umano nel paesaggio non dà requie persino al dormiente: è un incubo che pone in gioco il ricordo delle terribili macchine di Kafka nel romanzo “America”, laddove l’angoscia ancora ottocentesca che dominava “Il castello” viene trasformata, al cospetto del nuovo mondo, in una realtà di meccanico annientamento dell’umanità.

Ma qui il pittore pone il proprio contrappeso di condivisione.

L’esercizio di Marpicati – al di là di qualsiasi retorica – è il recupero in chiave rinnovata – e per certi aspetti volutamente fuorviante – di modelli figurativi appartenenti alla tradizione della pittura religiosa, dall’Ecce homo alla Deposizione, fino alla Pietà, riletti in chiave post-espressionista, con attori stupendamente dilavati dal vincolo della materia, privi d’urlo, rassegnati e consapevoli della propria inviolabile bellezza.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 63 e 64 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

SETTEMBRE 2001

GIANNI PRE,  La «Libertà in esilio» nei personaggi di Iros Marpicati 

Questi spazi
Questi spazi deserti questi solchi
scavati dai silenzi questa morte
segreta dell’anima
dove il volo affonda nei tramonti
a falce con la luna stuprata
questi rifugi dolenti e partiture
di gesti disfatti crisantemi questo
ti narro amore che rinasci dove
il mondo non ti somiglia
Stranieri ci sorprende il tempo ci esclude
ma non è fuga
il fragile smarrirsi nei tuoi seni
come vorrei donarti il volo di farfalle
che imprimono il sigillo del disagio
nel grigio mimetismo di metropoli lontano
da betulle dai confini
Noi vacilliamo forse aderendo il ragazzo
trascina il rifiuto il grido
di libertà in esilio
Giacomo Ferro

I versi di questa lancinante ed umanissima composizione fanno parte della silloge «L’insolvenza del vivere» del poeta Giacomo Ferro, pubblicata nei «Quaderni di Controcorrente», quale primo premio 1996 del concorso di poesia organizzato dall’omonima rivista.

Il tema portante di «Questi spazi» e di altre liriche di Ferro, è il conflitto, spesso senza uscite, dell’uomo della nostra epoca con il proprio ambiente sociale e con i propri simili.

Tale mutilata totalità dell’essere è la conseguenza di uno status di inadeguatezza e di emarginazione: una vasta solitudine esistenziale, che fa dell’uomo un condannato, un esiliato in un contesto sociale che ne amputa e ne svilisce le potenzialità affettive e di colloquio..

Peculiari ci sembrano le affinità di linguaggio e di problematica fra la macerata poesia di Giacomo Ferro e le crudeli sequenze realistico-visionarie della pittura di Iros Marpicati. Questo artista, infatti, con un repertorio di segno-colore audace ed incisivo (tecniche miste su cartoncino, disegni e grafite su cartoncino intelaiati, collages), usando all’occorrenza persino l’areografo per campire e distribuire le zone di tratto e di cromo – bianchi e neri unitamente a dosature semitonali di giallo e di ocra, di rosso e di grigio -, ci immerge in una dimensione in bilico fra l’estenuato esistenziale e l’onirico.

I suoi flessuosi e statuari nudi maschili, le sue delicatissime bambine, le sue plastiche donne, sono ripresi quasi sempre supini, distesi su un letto o su una superficie piana, in un indistinto interno. E sono come in preda di un demone inesplicabile e pietrificante, che li congela e li imprigiona in una sorta di metaforico sudario esiziale. Soffrono di un male di vivere, che ha radici profonde negli abissi della psiche, ma che è certamente la risultante di un rapporto conflittuale con il mondo circostante. Aspri risultano i contrasti scenici tra esterno ed interno. È forse per questa ragione che il singolo appare inchiodato in una duplice cattività: nel suo tormentato privato e nel cerchio-morsa-manetta di una gabbia metropolitana, che lameggia dall’alto, intorno, in basso, in un’interminabile teoria di gelide scatole di cemento armato.

Per Iros Marpicati, in ultima analisi, l’individuo è un predestinato, un prigioniero a vita; come, ad esempio, possiamo riscontrare in altri due protagonisti della pittura europea contemporanea: in Francis Bacon e in Lucien Freud. I quali, tuttavia, dal punto di vista espressivo sono più brutali e deformanti e, tematicamente, più centripeti e pessimisti nella loro furia autodistruttiva e demistificatoria. Bacon traduce l’interno a tetra scatola cubica in cui l’uomo, quando non è ridotto ad animale squartato appare simile ad un deforme ed orribile nano: malefico aborto di una civiltà disumanizzante. Freud è, invece, più fedele al dato reale: interno e figura umana (uomini e donne raffigurati come cascami di carne flaccida e sfatta) sono oggettivamente riconoscibili, sebbene la violenza icasticamente deformante li tramuti in simulacri di miseria e di solitudine.

Pur nelle istanze dolorosamente drammatiche in precedenza evidenziate, in Marpicati il corpo, l’essere, l’uomo non perdono un loro soffuso stato di grazia, in certo qual modo una loro primigenia sacralità. I suoi personaggi sono sicuramente figli dell’arido sistema sociale attuale, ma come percorsi, irradiati, da una luce interiore che li ingentilisce e li umanizza. Attraverso un’espressione di strazio o di spasimo sembrano voler proclamare la loro innocenza, che lì rende vittime e non correi.

SETTEMBRE 2001

GIUSEPPE POSSA,  La «Libertà in esilio» nei personaggi di Iros Marpicati 

La società tecnologica genera giovani dormienti: così vien da pensare osservando i quadri di Iros Marpicati, con tutti quei personaggi, freschi di vita e colti nel sonno in ambienti asfittici, ostili, imprigionati in architetture industriali, in spazi resi più drammatici da una meccanizzazione geometrizzante. Il progresso moderno ha moltiplicato i beni di consumo e spento i desideri: ha iniziato un regime di prosperità economica, innescando, però, un processo di despiritualizzazione sociale; attraverso l’automazione computeristica ha creato disoccupazione, frustrazione, mentre il lavoro sempre più facilitato, ma nel contempo precario e stressante, sta rendendo l’uomo un’ameba. Ecco, allora, che le nuove generazioni, in particolare, per l’insicurezza dell’esistenza, vengono colte dallo scoramento, si abbandonano all’oblio, incapaci di lottare contro un potere che tutto ha tolto all’uomo, tranne il suo ruolo di sfruttato; si abbandonano, così, all’assopimento che è preambolo della morte, non tanto fisica, quanto dei sentimenti e degli ideali, suscitatori di vita. I teneri corpi nudi che Marpicati raffigura sulla tela, nella loro fresca bellezza non paiono straziati, sofferenti, ma abbandonati, proprio per mancanza di lotta, di ribellione, alle avversità, in un torpore “nirvano”, in uno stato d’animo che ha estinto in sé ogni desiderio ed ogni passione…

…le opere di Marpicati, che possono apparire glaciali, possiedono una carica riflessiva di notevole spessore per un sottendere problematiche contemporanee assai complicate, per la difficile esistenza in una società ogni giorno sempre più violenta e complessa…

…Allora, osservandoli in simile visione (il sonno avrebbe un valore ristoratore, di recupero delle energie), essi potrebbero d’improvviso risvegliarsi, nella volontà di spezzare il giogo e creare una nuova utopia che nel futuro vede la finalità di nuovi e più concreti ideali. In tal senso le opere di Marpicati lo denotano artista testimone del proprio tempo, con una “provocazione” dai toni poetici, ma dall’acuta interpretazione analitica.

Nato a Ghedi, in provincia di Brescia, Iros Marpicati ha frequentato l’Accademia Carrara di Bergamo, sotto l’impor­tante guida di Achille Funi, il quale partecipò al movimento futurista con Boccioni, Severini, Carrà, Russolo e Sant’Elia e dopo il primo conflitto mondiale fu tra i fondatori di Novecento, nel cui ambito rappresentò l’indirizzo classi­cheggiante. Dal maestro, Marpicati pare aver assimilato quelle qualità neorinascimentali dal contorno nitido e dal colore metallico: una misura classica, un senso esatto del ritmo, una raffinata precisione dai meccanismi antichi e sapienti, perfettamente calibrati. In seguito ha conseguito il diploma al Liceo Artistico di Brera. Ha anche intrapreso gli studi di architettura al Politecnico di Milano, poi abbandonati per dedicarsi completamente alla pittura. Come lui stesso afferma, inizialmente possedeva una componente espressionista, derivante dalle sue predilezioni per Kate KolIwitz e Costant Permeke: «Poi ho fatto una serie di esperienze plastiche avanzate, al limite dell’astratto, ma l’impegno ad un discorso più preciso, meno ambiguo e neutrale, mi ha ogni volta riportato sulla strada dell’immagine, con un linguaggio ancorato ad una esplicita comunicazione». In questo periodo in cui ha risentito emozionalmente gli influssi dell’espressionismo astratto, ha accostato, tra gli altri, Franz Kline e Robert Motherwell, il suo “idolo”, tuttavia, rimane il multiforme Pablo Picasso, un genio contraddittoriamente umano, a cui l’arte deve, per un verso o per l’altro, gratitudine e per il quale Marpicati esprime ammirazione, giungendo a volte ad inserire nelle proprie composizioni un riconoscente omaggio.

Ha iniziato ad esporre nel 1958 e per una decina d’anni ha allestito mostre a Brescia (Galleria “Alberti” e “A.A.B.”) e a Milano (Galleria “Pater” e “San Fedele”); poi un lungo silenzio durato fino al 1996, interrotto solo nel 1983 con una mostra alla Galleria” S. Michele” di Brescia. Ora ha ripreso a dipingere e ad esporre con intensità, fino alle due recenti personali presso la “Ciovasso” di Milano, presentate in catalogo da Mario De Micheli e da Rossana Bossaglia. Della sua attività artistica hanno parlato i più importanti quotidiani e le più significative pubblicazioni culturali. Hanno scritto di lui, oltre ai già citati, noti critici come Ballo, Cassa Salvi, Corradini, Grasso, Lepore, Lorenzi, Monteverdi, Occhipinti, Portalupi, Pre, Russoli e Seveso.

Appassionato di musica sinfonica e lirica, Marpicati dipinge ascoltando i suoi autori preferiti, da Bach a Mozart, a Stravinskij, da Bartòk a Nono, da Wagner a Verdi, a Bellini, prediligendo, per le opere liriche, le superbe interpretazioni di Maria Callas, della quale è raffinato estimatore.

Iros Marpicati nutre certe perplessità sulla reale, oggettiva valutazione delle scelte critiche e del mercato contemporaneo. Crede che l’arte, seppure in minima parte, possa influenzare la mentalità, il costume; donare apporto intellettuale alle lotte per la riappropriazione di una coscienza civile e morale e magari anticipare i cambiamenti in atto nella storia. Incidere, insomma, profondamente nel tessuto sociale, poiché gli artisti autentici sono sempre pronti a intuire le istanze che giungono a loro dal passato o ad interpretare i mutamenti del proprio tempo e le numerose prospettive contemporanee della vita che, periodicamente, si prospettano loro con delle richieste esplicite ed improrogabili.

Anche noi, con Iros Marpicati, condividiamo che, se gli artisti non hanno mai rovesciato regimi politici o cambiato ideologie, tuttavia con la forza riflessiva ed evocativa di certe loro opere hanno spesso spinto i popoli alla riconquista della propria libertà.

MAGGIO 2002

GIANFRANCO BRUNO

Visitando per la prima volta, nel ’98, a Milano, una mostra di Marpicati, rimasi fortemente impressionato dall’ininterrotta tensione che scaturiva dall’insieme delle sue opere, quasi che un progetto d’unità tematica, e di idea, fosse sotteso a quella precisa scelta espositiva. Mi accorgo oggi, a distanza di pochi anni, di fronte al lavoro che di seguito l’artista ha condotto, che la tensione è una costante della sua pittura, equanimemente connessa alle risoluzioni stilistiche dell’immagine e ai contenuti che le sono propri.

Spinto da una forte esigenza espressiva, Marpicati manifesta un immaginario in cui l’unità tra soggetto e stile, tra idea e forma per renderla immediatamente comunicabile, è addirittura anteriore alla riflessione cosciente dell’artista sui pur complessi contenuti della sua arte. Quel che convince, anche in questa sua pittura recente, è la semplicità del dettato, come se l’artista fosse giunto ad un’estrema spoliazione dei dati di cultura per accedere d’acchito a quel forte nucleo espressivo in cui consiste la prioritaria ragione della sua scelta espressiva. Marpicati con naturale semplicità articola l’immagine su due oppositivi piani: lo spazio ambiente, per lo più connotato da una tagliente acutezza di profili, e la figura, che in esso, come in una minacciosa teca, è contenuta. Poi Marpicati, in altri quadri, esplicita chiaramente la qualità, il significato drammatico di questo ambiente, la cui minaccia accompagna sempre, anche quando esso non sia rappresentato, l’epifania della figura.

Le figure di Marpicati non sono fantasmi, non ombre che trascorrono uno spazio desertificato per il fatto stesso di costituire un’acre metafora di un luogo ostile all’uomo, ma proprio la fantasmatica incarnazione del corpo, non mummificato come in un sudario, ma in sé trascinante, in virtù del segno che riecheggia il calore e il tremore della vita, il persistente ricordo del reale.

Non so quale esempio abbia contato di più, o se abbia contato, per questo figurare dell’artista: se la memoria inconscia della forza escavante del segno della moderna oggettività europea, di certi protagonisti della Secessione viennese (Schiele, dico, e Kolig) o delle inquietanti figurazioni di antichi affreschi di “trionfi della morte”. Oppure le impressionanti immagini documentarie degli abominevoli eccidi del nostro tempo, degli abbandoni dei volti all’austera forza di redenzione e di restituzione di verità e di bellezza che la morte talora ha. Certo il figurare dell’artista coglie il punto di limite cui il confidente abbandono al sonno sì come alla morte conduce la persona.

Violenza e dramma, per quanto siano inequivocabilmente all’origine della risentita immaginazione dell’artista, sembrano assenti dal grembo spaziale in cui la figura appare preservata da una sorta di nostalgica evocazione della bellezza. Ed è singolare il tentativo di trasmettere negli squarci di paesaggio la minaccia, l’incombere dell’imminente lacerazione dell’organico (Marpicati cita espressamente, in un’opera del ’91, il grido di Guernica, e titola il quadro Ecce homo), sconfini nella siderale astrazione di un’immagine colma della remota, sofferta eco di un dramma che, presentito, si distacca comunque nella lucida disperazione dell’artista cosciente che nulla, se non la nostalgia, può opporsi all’ineluttabile corso dell’attuale destino (Per un quartetto di Béla Bartòk, 2002).

Io credo che una laica religiosità, non esplicitamente detta, sorregga il sofferto figurare dell’artista. Un figurare che ricorda, quale lontana memoria, antichi compianti: non su di un Cristo accolto nel solenne respiro della natura, che allude ad una méta di spiritualità e di pace, ma su quella vita reale di cui le sue figure, abbandonate a un turbàto sonno che storna nell’oblio la minaccia, serbano, nella loro casta bellezza, la pungente memoria.

Mosso da quell’intento di testimonianza che può rappresentare, in un tempo drammatico quale il nostro, una precipua assunzione di responsabilità per l’artista, Marpicati rifugge comunque dalla totale dissoluzione delle facoltà evocative dell’immagine nella repentina violenza del grido.

Vi è una pietas, in queste figure, nel loro apparire come accolte in un grembo di trepida commozione: sicché dominante in essa sembra essere, pur nel cordoglio che accompagna la lucida disperazione dell’artista sensibile al dramma del tempo, una sua mai sopìta nostalgia della bellezza.

2002

LUCIANO CARAMEL, Pittura come risonanza interiore 

Vi sono dei singolari rapporti tra le ultime opere di Iros Marpicati, del 2001-2002, in parte esposte in questa occasione, e quelle ormai remote dipinte dall’artista venticinquenne, tra il 1958 e il 1959, l’anno della sua prima mostra, a Brescia, nella Galleria Alberti. Là, come qui, protagonista è il contrasto tra le grandi masse scure che si protendono verso il riguardante e lo sfondo: nei lavori giovanili inciso da linee secche e sottili di tronchi, arbusti, tagli di luce evocanti per accenni paesaggi animati da una segnicità e gestualità di matrice informale, come del resto il gelso divelto (questo anche il titolo) che occlude la superficie di un quadro del 1958, oppure i girasoli carbonizzati (anch’essi scelti a titolo dell’immagine) che si stagliano in primo piano in un altro olio, questo del 1959; ora invece – lo sfondo – più uniforme o, se maggiormente complesso, scandito in larghe zone omogenee, nella forma e nel colore, e ferme. Mentre le figure sul proscenio si sono irrigidite, quasi in lame taglienti e puntute, che tuttavia, nella diversità, ripropongono significati allarmati, nella sostanza accostabili a quelli dei citati dipinti iniziali. Coincidenze di senso, quindi, oltre che di forme. Che evidenziano la continuità nello sviluppo – non nel progresso – del lavoro di Marpicati, frutto, ieri e oggi, d’una interiorizzazione incline a riflettere nella pittura non tanto il referente in quanto tale, né la reazione emotiva o intellettuale da quello suscitata, ma la sua risonanza decantata, con accenti anche forti, ma non appiattiti sulla cronaca e neppure sul giudizio ideologico.

Di qui l’impermeabilità del primo Marpicati da un canto al neocubismo, tanto fortunato negli anni Cinquanta, in funzione di una vivacizzazione moderna della figurazione, di una maggiore libertà espressiva, con esiti, peraltro, spesso, di formalismo compositivo; e dall’altro al realismo politicamente engagé. Come ebbe subito a comprendere con sottile sensibilità Mario De Micheli, accompagnatore critico di Iros fin dalla sua prima mostra. Che, presentando nel 1996, quasi quarant’anni dopo, una nuova personale del pittore, già da tempo rivolto a paesaggi industriali, alle ultime opere assai prossimi, affermerà di poter “addirittura usare una serie di osservazioni che” gli “erano servite per quella remota presentazione”, dato che “ancora oggi i problemi che Marpicati si pone sono della stessa natura, appartengono alla medesima situazione”. Che è di clima interiore, non di adeguamento alla nuova, e inevitabilmente diversa, congiuntura culturale, che altrettanto logicamente ha invece ricadute sul linguaggio. In queste opere recenti più duro, come raffreddato, ed essenzializzato, eppure tale da non attenuarne la carica espressiva, con una “astratta e crudele aggressività”, come ha aderentemente affermato De Micheli, che accentua l’alienante, cruda alterità del panorama metropolitano. È, certo, la “città spietata” di cui scrive, ancora, De Micheli, proposta tuttavia fuori di una polemica sociologica, e invece come rispecchiamento psicologico del vissuto. Di qui l’allontanamento dello scenario della città contemporanea in un geometrismo gelido, proiezione di un profondo, individuale malessere esistenziale.

Primaria è sempre infatti, nel Marpicati maturo, seppur nelle inedite soluzioni formali, di segno opposto a quelle della prima attività, la dimensione partecipativa, dolente, e capace financo di attingere l’elegia. Come provano quei quadri e quei disegni, tra i più alti dell’artista, in cui la macchina urbana fa da cornice – tragica, ma incapace di omologare tutto e tutti – a dolci, sofferte figure maschili ignude. Che De Micheli vede come protagoniste di “espliciti ‘ecce homo’”, come “vittime sacrificali”. Ma di cui anche avverte la bellezza, “il sentimento dell’innocenza che ne domina la rappresentazione”, la “tenerezza”, “la delicata istanza della passione che pretende il riscatto”: “patiti e amorosi questi giovani sono invasi da un’ebbrezza di morte”, che noi possiamo solo guardare “con emozione”, “perché sono il tributo a un incanto che ormai da anni abbiamo perduto”. Che però Marpicati continua a sentire, e quindi a rappresentare, con vibrazioni emotive che sanno imprimere a questi suoi corpi disegnati e dipinti con eccezionale perizia un languore insieme sensuale e spirituale, come in certe creazioni di autori manieristi, di un Pontormo, ad esempio, ma anche di un maestro quale il Bernini.

Lo osservava lo stesso De Micheli: “la bellezza di quei corpi ignudi, sia pure così offesa, rimane e non cessa di richiamare la loro vitalità”. Paiono spenti, talora. Ma sono solo sopiti e fisicamente abbandonati. E in ogni caso conservano una carica insieme dolorosa e erotica che li eleva al di sopra di qualsiasi emblematicità iconografica di denuncia, riuscendo a ridurre a comprimari, nonostante tutto inefficaci, i congegni acuminati che si risolvono in una sorta di controcanto che in definitiva esalta la morbidità e la fragilità medesima del corpo dell’uomo, fermato in una fiorente giovinezza che racchiude anche il suo inevitabile sfiorire, con torpida indolenza, che apre gli orizzonti alla nostalgia e alla memoria (è sempre De Micheli), realtà diverse, ma sempre di vita. Marpicati riesce così, con personalissimo linguaggio che acquista dignità di stile, ad operare un affondo nella complessità, di anima e di carne, dell’uomo, e nel contempo a trascendere quanto solo è contingente per tendere, induttivamente e nei limiti del possibile, ad una dimensione non particolare.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 67 e 68 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

OTTOBRE 2003

ELENA PONTIGGIA, Iros Marpicati – Una meditazione esistenziale

“Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
dorata da una chioma bionda…
certo è morta: non sai?”

Tornano in mente questi versi di Campana, osservando le opere di Iros Marpicati. E insieme riaffiorano alla memoria visioni di immagini simboliste: la morte di Ofelia, il sonno di Orfeo, quella capacità suprema che aveva certa arte di fine o inizio secolo di rappresentare il dramma con straniata pensosità. Di mettere, insomma, il dito nella piaga, toccandola però con accorata delicatezza, come se la volesse accarezzare.

Marpicati potrebbe essere un simbolista del Duemila. Nelle sue opere, e questo è un dato originale della sua ricerca, affronta il tema della sofferenza e della vulnerabilità dell’uomo con una soavità così affettuosa e intimidita, così pervasa di spiritualità, da rendere quella cognizione del dolore più metafisica che fisica. Al teatro dell’angoscia di tanta pittura espressionista oppone una voce sommessa, che non cancella il dramma, ma lo rende più misterioso.

Marpicati rappresenta l’uomo in mezzo a frammenti di paesaggi urbani: luoghi che non si riconoscono, ma in cui si annidano segni taglienti e crudeli, insidie, veleni. Il male è lì e l’artista lo indaga da vicino, scrutando i territori in cui prende forma, investigandone gli indizi, rilevandone le tracce.

In questi luoghi si materializza, o meglio si rende visibile come un’apparizione (perché mai come nelle immagini di Marpicati il corpo non è materia, ma anima) una figura. È una figura che dorme, ma il sonno non suggerisce una condizione di riposo, quanto piuttosto di inermità, di abbandono. Tutto può subire una persona che non è in stato di veglia, persino la morte. Ma Marpicati non dipinge la morte, dipinge la mortalità. Cioè la misura finita, corta, della vita.

Queste figure svestite, scoperte, innocenti nel senso etimologico del termine (cioè incapaci di nuocere) sono la conseguenza e, quasi, il frutto, dei luoghi che le circondano. Ne hanno subìto e ne subiranno la disumanità.

Ma, potremmo chiederci, perché dormono? Veramente la dolcezza smemorata, quasi madida, di quei corpi fa pensare a volte che si siano arresi al sonno dopo essere stati raggiunti dalle frecce dell’eros. È un dubbio che può assalire, anche se le didascalie delle opere parlano solamente di un Dormiente fra spazi industriali, di un Dormiente nel paesaggio notturno, di un Giovane assopito nel tramonto e sembrano alludere a uno stato di solitudine.

Tuttavia, poiché ci sono più cose in un’opera di quante non ne sappia l’artista (non parliamo poi del critico) esitiamo a scartare del tutto questa ipotesi. Del resto il significato di quelle figure cambierebbe poco. Che si siano addormentate esauste, dopo le fatiche quotidiane, oppure estenuate da un’estasi sensuale, la loro condizione di fragilità non cambia. L’erotismo di cui sono soffuse queste opere rimanda a uno stato di sofferenza, più che di piacere. Perché quando amiamo siamo ancora più vulnerabili, più esposti all’abbandono e al tradimento. Non sono i nemici che tradiscono, ma gli amici.

Marpicati, dunque, conduce una struggente meditazione esistenziale. L’uomo, sembra dirci, non è che un condannato a morte, anche se non sa quando la condanna verrà eseguita. E la bellezza e la giovinezza sono destinate a finire presto, anzi subito.

Eppure il sonno è anche una difesa. Non a caso La ragazza Carla di Pagliarani (uno dei libri-simbolo della generazione del realismo esistenziale a cui si può ricondurre, se non dal punto di vista stilistico almeno come orizzonte di significati, anche la ricerca di Marpicati) si apre con la dedica a una ragazza tanto poco allenata alle domeniche cittadine, che spesso il sabato, terminato il lavoro, prendeva una dose di sonnifero calcolata esattamente per dormire fino al lunedì.

I giovani dormienti che Marpicati rappresenta sono, è vero, indifesi, ma al tempo stesso sanno sfuggire alla realtà che li circonda. “Non sa più nulla, è alto sulle ali” diceva Sereni del primo caduto sulla spiaggia normanna. Anche i dormienti di Marpicati non sanno più nulla delle violenze che li circondano, della lama puntata alla gola, della ghigliottina pronta ad abbassarsi, della scure che sta per vibrare: metafore delle infinite ingiurie (del tempo, della storia, della vita) che li attendono. Il sonno, versato forse sui loro occhi da qualche dio, li protegge. Permette, almeno per qualche momento, di ignorare, di dimenticare.

E ancora, si potrebbe dire, la condizione del sonno è una condizione di libertà. Chi dorme, spiegava Proust, tiene in cerchio intorno a sé l’ordine delle ore e dei mondi. Cioè può vivere, attraverso il sogno, in altri luoghi, in altre epoche, vicino a chi non c’è più e a chi non c’è ancora. Può fuggire, insomma, dalla città atroce (anche se non è la periferia che è atroce, è la vita) ed essere solo psiche, solo visione. Essere solo anima, vagando oltre i limiti della materia.

Abbiamo vagato, anzi divagato, anche noi. Ma la pittura di Marpicati genera una famiglia di echi, evoca una trama di significati. Tanto che si rischia di trascurare l’aspetto linguistico delle sue opere: un aspetto che in realtà fondamentale perché, se mancasse, le immagini non sarebbero così eloquenti.

E dunque, a questo punto, dovremmo parlare della sapienza del disegno, della tenerezza dei giochi di luce e d’ombra, della vaghezza dei chiaroscuri, della precisione della linea, dei ritmi della composizione scandita spesso in trittici secondo una sua musicalità interiore.

O, ancora, dovremmo soffermarci sulla modulazione del colore: un colore non fisico ma mentale, emerso dalla lontananza come un dagherrotipo, nato non dall’impressione, ma dalla meditazione e dalla memoria.

E, soprattutto, dovremmo riflettere sullo stile di questa pittura, che lega insieme realtà e astrazione, trascorrendo senza contraddizioni dalla figura alla forma, dall’immagine alla geometria, strutturandosi sempre come un sentiero interrotto, come una sinfonia incompiuta. Perché quello che si dice non è che una parte: il resto è quello che non si può dire. Eppure questi aspetti del lavoro di Marpicati appaiono così evidenti che non richiedono tante spiegazioni. Del resto nella sua pittura lo stile è l’uomo. E questo fulminante aforisma goethiano significa nel suo caso non solo che le figure sono il journal intime dell’artista, il suo diario segreto, il suo inconsapevole autoritratto. Significa soprattutto che il suo stile parla dell’uomo, cioè di noi. Ed è per questo che ci riguarda da vicino.

OTTOBRE 2004

GIORGIO SOAVI

È proprio stato un bravo istruttore pedagogico lo scrittore ceco Franz Kafka (Praga 1883 – Kierling, Vienna 1924) quando ha scritto, nel 1919, il racconto “Nella colonia penale”. Che è utile citare proprio quando Kafka allude ai disegni del comandante di quella “colonia”. Ecco il testo: “I disegni autografi del comandante stesso?” si chiede il viaggiatore. “Ma allora il comandante assommava nella sua persona tutte le attività? Era soldato, giudice, chimico, costruttore, disegnatore?”.

Quel racconto ha offerto al pittore italiano Iros Marpicati di rincorrere, disegnandola, l’idea, non tanto ambigua, della morte cadaverica e dell’incombere di una architettura industriale fredda come una lama. È nell’accogliere le sciagure come parte della nostra identità: quindi, come “favori” a noi resi, per far diventare le fredde lame, o le sciagure, come un aiuto quotidiano, non soltanto a vivere, ma a inventare pittura e romanzi.

Iros Marpicati, nome di un pittore a me – notoriamente ignorante come una talpa – fino a ieri sconosciuto, entra con questo tono che, da giovane mi terrorizzava, quello di Kafka, un flagello del proprio tempo, capace di spaventare l’umanità anche letteraria che gli deve molto. E perché mai?

Perché nessuno di noi aveva ancora accarezzato, o era stato agguantato per il collo, dalla paura. Per sua, e nostra fortuna, – non sto bestemmiando ma è la verità presente anche ai nostri giorni – sono apparse, o se preferite, esplose le guerre mondiali che ci hanno fatto ragionare ed entrare nel profondo dei timori e il modo, assolutamente e perfettamente leale, di disegnare la qualità della paura: e questo mi sembra essere il marchio di fabbrica di Iros Marpicati.

Gli è rimasto dentro nella pancia Franz Kafka, che forse lo ha convinto, con la sua naturale logica infernale, a disegnare quel terrore, quel sonno, forse mortale, che domina nei disegni di questo artista bresciano nato a Ghedi, un paese che mi è stranoto perché, da bambino, non esisteva, per me lombardo, altro aeroporto che non fosse quello di Ghedi.

Marpicati sta con i piedi e le mani per la terra della propria realtà, cioè si è allenato a disegnare su fogli che poi appiccica a un cartoncino telato e il risultato è che i suoi disegni sono – non sembrano – “sono” quadri da vedere.

Lui, gelidamente perfezionista, rincorre il profilo dei suoi eroi, maschi o femmine, e sa disegnare, nei dettagli, con una dolcezza prevalente…

Prevalente su cosa?

Sul terrore che è lì, ben presente nelle sue figure. Tanto è vero che quando, ma raramente, i suoi nudi se ne stanno per conto loro, ben solitari e quindi lontani dal mondo emerso, sembrano i resuscitati di un continente che sta per essere minacciato dal profilo di un metallico design industriale, secondo personaggio della galleria personale di questo artista, delicato ed esatto nel tratto, ma abitante di quella “colonia penale” di tutti noi che guardiamo i quadri ma, molto spesso, ci voltiamo per la strada attratti da un profilo.

Marpicati guarda intensamente e, altrettanto intensamente, disegna – come avverte la didascalia a un suo disegno dal titolo: “Figura femminile tra spazi aggressivi” – che è il ritratto, o la carta d’indentità numero uno, del nostro temerario, e al tempo stesso sensibile, eroe Marpicati. La figura femminile sembra sia stata raccontata da un analista che sta ben attento a non trascurare com’è fatto l’orecchio di quella donna, la sua capigliatura e, se proprio vogliamo aggiungere altri dettagli, da come è fatta, che spessore hanno per noi abituati a cercarli ovunque, il seno, la pancia, le braccia e quel frammento, magistrale, che sta tra il collo e l’inizio delle ascelle. Beato lui che ha saputo disegnare queste apparizioni degne di continuare ad essere, per l’eternità, la figura femminile che si impone al mondo.

2005

VITTORIO SGARBI, Iros Marpicati

Iros Marpicati è pittore di forte temperamento, il quale, coniugando il tema della solitudine, racconta e visualizza una serie di prigioni silenziose, tanto sofferte quanto del tutto oggettivizzate, che albergano, fra le loro pareti di pittura, figure umane addormentate. Ma sia chiaro che tutto questo attiene più a una riflessione metafisica che a un discorrere connesso retoricamente alla fenomenologia sociale dell’incomunicabilità. Un silenzio denso e avvolgente imprime a queste opere un senso di costrizione che, non a caso, si esplicita in una fra le più significative, quella dedicata a Kafka, lo Studio di fanciullo per “Nella Colonia Penale”. Anche qui, come nelle altre prove dell’artista, non è dato spazio a sfoghi autobiografici, piuttosto si impone il freddo controllo dell’esposizione di un dato di fatto. La qualità espressiva delle immagini rivela una manualità rigorosa e molto ben esercitata nell’arte del disegno, dove il gesto, che appare rigorosamente preordinato, non commette infrazioni nel gioco del bianco e nero e sembra agire senza ripensamenti. Sia nell’elaborazione delle tecniche miste su cartoncini intelaiati, che nell’uso della sola grafite, il racconto è arricchito da un linguaggio segnico incisivo, dove la presenza centrale della figura umana addormentata è composta in una drammatica e statica plasticità. La metafora del sonno – e qui è chiaro che per sonno non si intende il dormire più o meno profondamente, bensì la rappresentazione di un ego che persiste e che si proietta in un altrove onirico – non è il segno di una fuga dalla realtà, ma piuttosto quello di una clausura, di una comunicazione interrotta, o forse della difesa da una minaccia. Posti in uno spazio che conclude un destino immutabile, i protagonisti di queste composizioni sembrano aver preso atto che la realtà è un simulacro scenografico, un brandello di sogno a cui solo la scrittura pittorica può restituire dignità narrativa. Pittore raffinato nella modalità di trattare i passaggi tonali, prevale in Marpicati un grafismo severo e meditato, che modula il rapporto fra la figura centrale e i frammenti informali dei fondi che tendono a intaccarne la compiutezza. Questo artista è un narratore della sua stessa introversione: da una parte c’è l’intrico insondabile della realtà, dall’altra egli suggerisce un’immagine del sonno specularmente alternativa al vivere umano, come soluzione oggettiva e testimoniale dell’esistere al di fuori del caos della materia. Negli attori di queste scenografie si percepisce il bisogno di rientrare a occhi chiusi nella memoria perduta, con la lucidità dello sguardo interiore che si affaccia sull’assurdo. Nel loro sognare hanno in comune la purezza dei lineamenti, sia quelli indefiniti dell’infanzia, sia quando appartengono a un maschile e a un femminile straniati e senza età. Le figure imprigionate in un audace contrasto compositivo impongono una riflessione meditativa, un’aristocratica presa di distanza dal problema irrisolvibile della sofferenza, pur continuamente evocata proprio dalla dialettica fra l’informe e il figurale. È soprattutto interessante questo recupero, a livello tecnico ed espressivo, di forme neocubiste che si propongono in funzione di una giustificazione grafica della morbidezza lineare della figura umana, trattata invece dal punto di vista pittorico con la stessa plastica attendibilità di una natura morta. Infine, e al di là del senso specifico della narrazione, è la staticità leggera e innocente di questi sognatori che colpisce l’osservatore, la lacerazione ricomposta nell’apparenza dell’abbandono al sonno.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 81 e 82 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

GENNAIO 2005

GIORGIO DI GENOVA, Le anatomie della condizione umana di Marpicati 

Ecce homo è una tecnica mista su cartoncino dipinta nel 1991 da Iros Marpicati. Il grande formato è suddiviso in due: in alto si percepisce l’immagine di uomo accasciato e costretto da metallici elementi che lo offendono; in basso, su una sorta di schermo bianco, fanno da contrappunto i disegni del profilo di uomo urlante di dolore, preso di peso da Guernica di Picasso, una colomba e un volto femminile, altre due citazioni del pittore Andaluso. L’opera è una vera e propria dichiarazione di poetica.

Infatti Marpicati, che sin dagli esordi in opere ad olio di intenso e robusto espressionismo intriso di risentimenti informali (Gelso divelto, 1957; Girasoli bruciati, Gelso divelto, 1959) e dalle atmosfere cupe simili a quelle dei primi dipinti di Van Gogh (Donna con vinchiDonna che mangia, Contadina che riposa, 1958), non fa che rappresentare l’aspetto tragico del vivere umano e del suo habitat, procedendo sui binari del linguaggio sia iconico che aniconico, ora distintamente, ora congiuntamente, in modi così consequenziali da confermarmi, come più volte ho asserito, che ogni artista, mutatis mutandis, non fa che ripetere sempre la stessa opera, anche colui che per slittamenti radicali sembrerebbe inficiare tale mia convinzione. E’ necessario saper leggere al di là delle apparenze per constatare che così è anche per quegli artisti che si distinguono per il loro nomadismo espressivo e lessicale: a ben guardare, esiste un’indubbia coerenza anche in essi1.

Marpicati, insomma, appartiene a quella schiera di artisti monodici. Ed a tal punto che talvolta, mutatis mutandis, si ripete, come è attestato non solo da opere ravvicinate, ma pure da opere distanti tra loro e di diversa tecnica, come mi par attesti la citazione del profilo tratto da Guernica che ha una cospicua anticipazione nella testa sollevata verso l’alto della donna dell’olio del 1959 Invocazione.

In realtà tutte le opere del nostro pittore lombardo non sono che variazioni sul tema. Anzi, su un tema, quello dell’umanità vittima dell’aggressività dell’ambiente esistenziale. Un tema probabilmente intriso di forti sostrati autobiografici, ancorché l’uomo che compare e ricompare nei suoi quadri non abbia le sue sembianze. Ma, si sa, si può parlare di sé per interposta persona, come fanno i narratori che, anziché alla prima persona, preferiscono la terza. Il che fa prendere le distanze al narratore, ma nel contempo carica di oggettività la storia, rendendola più universale.

Ed è, penso, ciò che caratterizza l’arte di Marpicati.

Nel suo discorso l’umanità è sacrificata, chiusa, imprigionata, costretta, gli interni sono prigioni ostili, i territori aggressivi, i paesaggi taglienti, crudeli. Non è un caso che su questa scia l’artista abbia avuto l’agnizione della parentela del suo sentire con quello del Kafka del racconto La colonia penale, tanto da trasporre di peso, o meglio mettere tra parentesi di Studio di ragazzo per “La colonia penale” di F. Kafka (1992) e del disegno col busto femminile Studio per “La colonia penale” di F. Kafka (2000) alcuni dei suoi minacciati personaggi coricati (e penso soprattutto, per omologie di impostazione, sia ad Euridice – Orfeo “che farò senza Euridice” del 1995, prima idea per Figura coricata in un interno ostile del 1999, sia a Giovane assopito al tramonto del 1998, a Studio di figura del 1997 ed a Studio di testa del 1999).

Di fronte ai meccanismi aggressivi che minacciano i “condannati” distesi sul letto o lettino nei lavori di Marpicati potremmo asserire assieme all’ufficiale del racconto kafkiano: “E’ una macchina veramente curiosa”. E potremmo osservare con attenzione tali meccanismi per individuarne le tre parti della macchina per le esecuzioni nella colonia penale kafkiana, secondo la descrizione fatta dall’ufficiale al viaggiatore incaricato di stendere il rapporto: “L’inferiore si chiama il letto, la superiore è il disegnatore, quella sospesa in mezzo, l’erpice”. Ma nell’universo dell’artista lombardo i “condannati” non sono sempre coricati, spesso – quando non penzolano accasciati dal giaciglio (La pietà, 1995) – sono in posizione verticale, com’è nei tripartiti lavori Il sonno tra i paesaggi (1995), L‘uomo chiuso tra due paesaggi (1995-96), i coevi La bambina imprigionata ed Il dormiente nel paesaggio industriale (1997-98), Il dormiente tra spazi industriali Figura femminile tra spazi aggressivi (1999-2000), Costrizione (2002).

Per lo più i protagonisti del discorso di Marpicati dormono, quasi l’artista volesse significare che “il sonno della ragione genera mostri” e che i mostri in questione sono, appunto, i paesaggi industriali, gli spazi resi estranianti per i colpevoli interventi dell’uomo. Per cui, se noi non riusciamo a comprendere per quale motivo l’umanità è così maltrattata, Iros mostra di conoscerne bene la ragione, che poi ragione non è, ma è follia. La follia stessa dell’uomo che s’è costruito da solo le sue prigioni ambientali e sociali. Anche per lui, come per l’ufficiale kafkiano, “la colpevolezza è sempre indubbia”, per ciò giustamente l’umanità è costretta a scontare le proprie schiaccianti responsabilità nella propria “colonia penale” esistenziale. Ed anche se se la dorme incastrato tra esse, com’è nei lavori tripartiti verticalmente (L‘uomo sacrificato tra due paesaggi, 1993; L‘uomo che dorme tra i paesaggi, 1995), posizione più naturale per dormire, ovviamente, di quella verticale che l’artista ha adottato, ricorrendo ad innaturale raddrizzamento, al fine di accentuare la drammaticità della situazione che tiene in equilibrio instabile i corpi, che talvolta si afflosciano (Costrizione, 2002), acquisendo in qualche caso posizioni da epilessia (Bambina imprigionata, 1997-98).

E’ ovvio che la Weltanschauung di Marpicati è profondamente pessimistica, il che spiega perché nelle sue opere il colore è spento, pressoché alluso, come sorta di timido viraggio che qua e là ritocca il sostanziale bianco nero fotografico delle sue scene, bianco nero che in realtà predomina non tanto per il suo pessimismo, bensì per il fatto che egli è più disegnatore che pittore, cioè è dotato di un genuino temperamento grafico che ha saputo coltivare magistralmente, ottenendo le raffinatezze delle sue dialettiche scene di oppressione dell’esistere. Oppressione che è, come accennato, determinata dall’habitat inospitale, che l’uomo talvolta osserva dall’alto (Studio di figura, 1997), ma che altre volte sovrasta le persone (Il dormiente nel paesaggio notturno, 1998; Figura adagiata in un interno industrialeFigura coricata in un interno ostile, 1999 ), quando non le schiaccia (La bambina coricata, 1997), o addirittura si configura come la radice dei suoi drammi esistenziali (Memoria in due tempi drammatici n. 1, 2000), nonché cuscino del suo disfacimento (Memoria in due tempi drammatici n. 2, 2000).

Ed uso non a caso il termine disfacimento, perché le immagini umane di Marpicati, con l’eccezione dei volti, presentano corpi in via di deterioramento, quasi l’ambiente produca miasmi che aggrediscono le fattezze somatiche come una lenta, ma inesorabile lebbra, che è simbolo dell’impossibilità di essere sani e normali in un mondo siffatto, di cui l’artista denuncia l’oppressività per dichiarare la propria aspirazione di libertà, da altri, per esempio la artista inglese Sam Taylor Wood, esplicitata nell’antigravitazionale serie Self Portrait Suspended, grandi foto in cui il suo corpo appare sospeso in varie pose in ambienti reali.

Già, un mondo siffatto.

Ma com’è il mondo di Marpicati? E’ una sorta di macchina stritolatrice con i suoi ingranaggi di irrazionale geometria, costituiti dai suoi muri interni, dagli edifici urbani, dagli spazi industriali (Paesaggio industriale, 1997; Agonia di una mantide religiosa n. 1Agonia di una mantide religiosa n. 2, Territorio aggressivo, Per il “Canto sospeso” di Luigi Nono 2001; IntolleranzaPer la “Suite lirica” di Alban Berg, 2001-02, Per il “Passo d’acciaio” di Prokof’ev, 2002), pieni di punte, lame, aculei, che spuntano improvvisamente dalle ombre, angoscianti per la loro irrazionale compresenza con le luci, che si riverberano anche sui paesaggi (Paesaggio tagliente, Paesaggio crudele, 1993; Paesaggi verticali, 1994). E sono tutte declinazioni di un visionarismo macchinino, totalmente antitetico al Machinenstil, che negli anni Sessanta aveva ripreso vigore in Europa e aveva portato nel 1964 Marpicati a vedere nelle auto uno strumento di morte, come è in Incidente n. 1 ed in Incidente n. 2, in cui teste recise costituivano il diapason del tragico evento per contrasto con le scansioni spaziali dalle coordinate dagli evidenti sostrati geometrici, e pertanto ben lontani dai cicli Disaster Car Crash, realizzati nel 1963 sulla base di immagini di rotocalco da Andy Warhol2.

Il pessimismo di Marpicati, ancorché declinato su parageometriche modulazioni macchiniche, è lontano da quello di Sergio Sarri, altro pittore che sin dagli anni Sessanta ha rappresentato la crudele ostilità delle macchine, soprattutto nei confronti delle donne. Infatti il suo background stilistico non è nell’ottica fumettistica, com’è per Sarri, bensì è riconducibile all’obiettivo fotografico, anche se poi Iros rielabora le sue scene secondo il proprio temperamento di disegnatore più incline al naturalismo, da un lato (quello delle figure), e alle strutture aniconiche, dall’altro lato (quello degli ambienti). Nel suo rappresentare la condizione esistenziale umana anche ideologicamente Marpicati si distingue da Sarri, che denunciava le torture a cui le donne sottopongono volontariamente nei saloni di bellezza e nelle palestre i propri corpi.

Col suo occhio foto/grafico, nel senso etimologico di disegnatore che fotografa le visioni del suo pessimismo, Marpicati riesce a realizzare vere e proprie simboliche “radiografie” della realtà. Ed in questo può essere accostato, nonostante le sostanziali diversità, a Bepi Romagnoni, il quale nei suoi Racconti, avviati nel 1961 ed interrotti dalla morte prematura3, nei quali, come ho avuto modo di sottolineare in passato, attuava una “frantumazione dell’icona fotografica”, nonché un “voluto obnubilamento della riconoscibilità del dato oggettivo e delle fisionomie, che tuttavia non smarrivano mai la loro fisicità”4. Marpicati anziché frantumare l’icona fotografica la sfalda e per quanto riguarda gli spazi non li rimescola come faceva Romagnoni per restituire il caos della vita quotidiana, bensì li scandisce sulla scorta di una ratio geometrica che traspare solo in filigrana per la sua emblematica simbolicità. E tuttavia il suo universo qualcosa di quello di Romagnoni riecheggia. Forse non casualmente.

Note

1 In altre parole, approfondendo le loro continue scorribande stilistiche ed espressive, si giunge sempre a cogliere che alla base c’è sempre una stessa fisionomia, proprio com’è per l’aspetto fisionomico di un volto, che col passare degli anni dalla nascita alla vecchiaia cambia, varia e talora addirittura si deforma, ma è sempre uno, per non dire unico.

Sembrerebbe che Marpicati con i suoi incidenti si sia voluto opporre ai tanti artisti che più o meno nello stesso giro d’anni in Italia realizzavano quadri con cimiteri di macchine per stigmatizzare gli abnormi risultati dell’industrializzazione. Sono persuaso che, sia se questa era la sua intenzione sia se non lo era, nei citati Incidenti,veri e propri incunaboli della produzione avviata nei primi anni Novanta, vada individuata la matrice del suo cammino recente ed attuale.

3 E’ noto che Romagnoni morì nell’estate del 1964 a Villasimius, in seguito ad un’immersione subacquea.

Cfr. il mio Generazione anni Trenta, Edizioni Bora, Bologna 2000, p. 126.

Nota: nel mese di marzo del 2010, il testo è stato riproposto nelle pagine 81 e 82 della monografia «Iros Marpicati – Opere 1954-2009», tipolitografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

DICEMBRE 2005

ENZO FABIANI, Il ritorno e la presenza di un artista d’eccezione – Appunti per “La personalità di Iros Marpicati”

Chi voglia occuparsi, scrivendo o parlando, del pittore bresciano Iros Marpicati (nome forse dialettale Iros, dal significato misterioso), deve rifarsi, per utilità e dovere, al critico Mario De Micheli che per primo si occupò autorevolmente di lui presentandone la prima mostra nel marzo del 1959 e la seconda nel maggio 1964. De Micheli, generoso studioso e storico, scrisse del giovane Iros con tanta attenzione e intelligenza che noi suoi colleghi, venuti secondi, dovemmo ripetere i suoi giudizi appassionati quanto illuminati e illuminanti.

A questa “esclusiva” si aggiunga il fatto che un giorno, come testimonia De Micheli, il giovane artista “sparì e si rinchiuse nella sua solitudine, indagando i percorsi della propria coscienza e della propria anima”. Una ricerca e un silenzio che durarono a lungo, fino a quando, come ricorda ancora De Micheli, “eccolo finalmente riapparire, nel corso dell’ottobre 1996, con un gruppo di quadri esemplari”.

Ora io non vorrei, con continue citazioni, limitarmi soltanto a una trascrizione dei testi demicheliani, anche perché molti e altrettanto autorevoli sono stati i critici che hanno lodato e amato il pittore bresciano.

Comunque, di Marpicati il critico dice che “la sostanza del suo discorso non è mai mutata, non è diventata picassiana, ma è restata legata all’impegno terrestre dell’uomo, alle sue preoccupazioni, ai suoi assilli profondi. È per questo che ogni suo quadro è un esplicito ecce homo costretto tra paesaggi di astratta e crudele aggressività”.

Dopo queste indicazioni, De Micheli descrive i motivi più sentiti e raffigurati da Marpicati e cioè i “nudi giovanili”, ai quali vanno aggiunti i “paesaggi urbani con caratteri metallici e industriali”. Ed è proprio nelle figure che l’estro creativo ed interpretativo del maestro affronta i “giovani patiti e amorosi invasi da un’ebbrezza di morte… motivi che con emozione noi possiamo solo guardare, poiché sono il tributo a un incanto che ormai da anni abbiamo perduto”.

Queste indicazioni e accenni (così come quelle dei vari colleghi tra i quali Valsecchi, Kaisserlian, Bossaglia, Pontiggia, Trombadori, per citarne alcuni, mi hanno aiutato nel considerare e capire, direi fino a un incantamento estetico-storico, quasi che la sua pittura fosse, capitolo dopo capitolo, cioè quadro dopo quadro, il racconto rilucente dello scontro delicato e insieme maligno tra spirito e materia. Mai, durante la mia vita, visitando centinaia di studi di artisti, mostre e musei, avevo visto le persone vinte, così travolte, schiacciate e umiliate come greggi da temporali infernali. Il tutto, in questo “poema”, è raffigurato con un ispirato e perfetto dominio del disegno, dei colori, delle atmosfere. I due elementi dominanti, e cioè le figure umane e le architetture sono resi qui indimenticabili, apparendoci come falchi ebbri, come spade diaboliche, come angeli feriti…

Non ho mai visto raffigurazioni così poetiche e dolenti, così taglienti e così efficaci, tanto che il riguardante dimentica le varie tecniche e scuole e mode e Accademie e professori, restando stupefatto davanti a una realtà strana e arcana; quella realtà che soltanto i veri artisti conoscono e magicamente raffigurano e che Iros Marpicati racconta, in una sua Apocalisse preziosa e rifulgente, memore forse dell’affermazione agostiniana secondo la quale: “La Verità ? E’ un Uomo vivente …”.

GENNAIO 2006

MARTINA CORGNATI

Nell’arte di ieri e di oggi, la rappresentazione del sonno è piuttosto rara ma toccante. C’è qualcosa di assolutamente intimo nell’osservare una figura addormentata, vulnerabile ma lontanissima, come sospesa in una dimensione diversa e per questo intangibile. È l’impressione che si avverte per esempio di fronte al gruppo trecentesco dei Re Magi nella chiesa di Sant’Abbondio a Como: protetti da una coperta variopinta, ad occhi chiusi ricevono il messaggio dell’angelo in piedi di fronte a loro, “non confidate in Erode”. Oppure di fronte al Costantino di Piero della Francesca, abbagliato dal sogno che gli mostra la via da seguire, mentre l’inutile guardia dagli occhi sbarrati non capisce nulla. Chi dorme è sensibile a cose sottili, che sfuggono agli svegli, troppo distratti dalla loro coscienza apparente. Danae sprofondata nel sonno (Klimt l’ha vista così) trova l’ingresso al luogo della concezione, il luogo misterioso dove la vita ha origine.

Il Novecento, il secolo della psicoanalisi, ha intarsiato il razionalismo antico e il positivismo dell’età industriale di provvide zone d’ombra: per arrivare altrove, per saperne di più; per sfiorare la parte più illesa della vita.

Per questo, ancora, la raffigurazione del dormiente costituisce uno dei momenti più misteriosi e alti dell’arte presente come passata. Nonostante la differenza di stili e i secoli che le dividono, le figure dagli occhi chiusi presentano infatti sempre dei tratti comuni, inerenti forse alla loro consistenza straniante, all’incantesimo della loro apparizione. Iros Marpicati ha scelto di caratterizzare i suoi personaggi appunto attraverso il loro sonno, la loro condizione di presenze assenti, portatrici di un altrove, evanescenti nello spazio. Elena Pontiggia, fra gli autori più attenti al lavoro dell’artista bresciano, ne ha sottolineato la fragilità, la mortalità, la cognizione implicita del dolore di chi è conscio della propria finitezza. In fondo, chi dorme si sottrae ai rigori della coscienza ed esprime liberamente, senza controllo e senza calcolo, la propria sensualità restando lontano, immerso nel sogno; chi dorme si apre a un’altra e più profonda dimensione, quella dell’anima, come dice James Hillman. Il sonno delle creature di Iros Marpicati sembra voler accentuare la loro flebilità, la loro scarsa consistenza, come se si trattasse di esseri non completamente incarnati, immemori della propria corporeità e ad essa indifferenti. Fra essi, non c’è mai contatto (non a caso Vittorio Sgarbi parlava di incomunicabilità), nemmeno quando la loro pelle si sfiora e le loro membra si sovrappongono e si intersecano. Nel sonno, lo voglio ripetere ancora, c’è un altrove che nega l’hic et nunc e sprofonda il soggetto in un’incertezza esistenziale di portata più che fisica.

Condizione dunque intermedia: come si trovano infatti i personaggi evocati da Iros Marpicati nelle sue intitolazioni, per esempio Euridice, sospesa lontana dalla felicità fra la vita e la morte, l’umanità e la divinità; oppure, in maniera diversa, gli eroi kafkiani non solo di quella Colonia penale citata in uno dei quadri più dolorosi che l’artista abbia mai dipinto, ma i protagonisti del Castello, del Processo, della Metamorfosi, uno dei sogni/incubi, non a caso, più conturbanti del Novecento.

Iros Marpicati insiste da anni a mettere in scena questo stato ai confini della rappresentabilità, forse per evidenziare la precarietà dell’esser-ci (in senso heideggeriano), la labilità instabile della bellezza, ma anche per rendere le sue figure in qualche misura impersonali, nessuno e tutti, eludere un loro possibile sguardo troppo umano e troppo caratterizzato e fare di loro anonimi rappresentanti dell’umanità in generale, inevitabilmente imparentate con quelle presenze mitiche, Costantino, i Re Magi, Danae, che per parlare con gli angeli hanno rinunciato un po’ all’essere uomini.

I colori prediletti dall’artista sono sbiaditi e inconsistenti come il corpo delle sue figure. Attentissimo alle fibre cromatiche, Iros Marpicati tende a dar corpo ad atmosfere spente, perlacee, delineate intorno a un unico tono dominante , incastonato dal nero e soffuso di grigi. Scarse, se non assenti, le concessioni a timbri più squillanti, chiassosi, vitali: lo spazio, soffuso e permeabile, è rarefatto al punto giusto per poter accogliere senza strappi elementi visivi differenti per scala, significato, consistenza e il colore pulsante ma flebile e carezzevole offre il tessuto giusto per accogliere questi contrasti. Intorno alle figure infatti si delinea spesso una specie di paesaggio dalle rigide forme astratte, spesso taglienti ed aguzze, aggressive, di cui l’artista non esita a mettere in evidenza la connotazione tecnologica, in altre parole disumana e disumanizzante.

Il loro nero è profondo, anzi abissale come una cesura cosmica, come una frattura insormontabile, incomprensibile e infinitamente densa. Un nero in cui vuoto e pieno coincidono, nella macchia, nell’invalicabilità. Benché oggi sagomato e in qualche misura razionalizzato, questo effetto, nero, deriva da quei tratti acuminati e impulsivi che avevano caratterizzato la prima, intensa e ammirevole stagione del lavoro di Marpicati, da situarsi nell’ambito del realismo esistenziale. Sto pensando al nero graffiante di Donna con vinchi (1959) del Gelso divelto (1957), drammatico e lacerante non meno dell’umanità sconfitta e dolente descritta da narratori cari appunto all’esistenzialismo, in primis Camus.

Una stagione singolarmente promettente, fervida di agevoli attraversamenti di figurazione e astrazione, paesaggio e figura, per meglio dire natura e corpo, complicata poi, negli anni sessanta, da precoci infiltrazioni tecnologiche di stampo quasi pop, o meglio Mec art. Iros Marpicati ha lasciato perdere tutto questo e una lunga pausa produttiva si è frapposta fra quella dimensione passata e il suo lavoro recente (ripreso nel 1991 e proseguito poi, da allora, senza più soluzione di continuità); ma non ha né tradito né dimenticato se stesso: anzi, quell’idea dell’arte e dell’uomo, l’intensità dei suoi contrasti, lo spessore delle stratificazioni di senso e di pittura che l’opera sempre propone e le fratture visive offerte da questi neri oggi compiutamente impersonali e hi tech, vivono tutti ancora come una memoria profonda, come uno sviluppo coerente della sua identità di artista e di uomo.

Oggi questi profili insondabili che definiscono sagome dalle forme spesso apertamente ostili e aggressive, delineano una specie di inabitabile paesaggio costruito, per certi versi, sull’ambiguità di pieni e di vuoti, di negativo e di positivo, che ricorda certe soluzioni antiche concretiste, per esempio la serie dei Negativi-positivi realizzata da Bruno Munari negli anni cinquanta. Ma se allora l’intenzione dell’artista era soltanto quella di offrire una produttiva provocazione alle convenzioni e alle abitudini percettive correnti, nel caso di Marpicati vuoto e pieno, spazio e assenza di spazio incastonati l’uno nell’altro sul problematico crinale di una lama, acquistano un’evidente connotazione morale, si fanno metafora di una condizione umana, prigioni per queste tenere figure addormentate, apparentemente tanto diverse.

Sono proprio questi sbalzi e discontinuità impreviste a conferire a questa recente produzione di Iros Marpicati un senso di claustrofobia e di penosa costrizione. Giocando continuamente sulla divisione e distinzione degli spazi, l’artista ottiene di comprimere abilmente le proprie figure in alveoli angoscianti troppo piccoli per loro, provocando così un produttivo e caratteristico contrasto con quanto li circonda.

Il comporre di Iros Marpicati infatti è dialogico, per lo più, o contrappuntistico, per prendere a prestito un termine dal mondo della musica che l’artista bresciano ama in modo particolare. E nelle opere recenti è ancora più accentuata la tendenza alla divisione degli spazi, cioè all’organizzazione di veri e propri polittici, divisi in comparti precisi e le relazioni reciproche ben circostanziate e contrapposte. Si tratta di una scelta che compromettendo forse l’idea del quadro come unità formale e visiva, accentua la tensione narrativa e rafforza il contrasto fra la morbidezza di certi particolari, un orecchio, un capezzolo, messi a fuoco con millimetrica precisione, e la dura indecifrabilità delle forme e degli spazi che le circondano e che le opprimono.

Non a caso, forse, il tormento e la lacerazione che le loro membra talora esprimono: queste figure forse hanno sofferto o temuto di soffrire, e la loro sofferenza è un universo permeabile solo alla partecipazione amorosa o poetica, che poi sono la stessa cosa. Per questo, il loro è il racconto di un attraversamento, un’esperienza del corpo colto nel modo infinitivo del sonno. Incontrando il conflitto, ritrovandosi, forse loro malgrado, al centro di uno scontro di forme, i personaggi di Iros Marpicati rifiutano di vivere il dolore e si addormentano. La presenza di questo permanente stato di ostilità li ha portati a utilizzare il sonno come strategia, come strumento per non sentire, non partecipare, spostare, eludere il confronto.

Attingendo a tutto il proprio passato di pittore e di uomo per toccare la carne viva di una condizione che si può dire universale, oltre la cronaca, Iros Marpicati produce un discorso speciale e affascinante, fondato su un rischioso dialogo di assenza e presenza, di astrazione e paesaggio, di negativo e positivo: una lunga sequenza di antefatti, risolti, nel quadro, grazie a uno stato di sospensione e di lungimiranza lirica e quasi visionaria.

Il lavoro dell’artista bresciano mette in scena la precarietà e la durezza dell’esistere, colte in termini di continua compresenza, come aspetti complementari della condizione umana. Profondamente attuale nel linguaggio e nel punto di vista, ma ben consapevole del passato, del valore della memoria; tessuto connettivo sul quale ogni nuovo attimo intreccia le sue trame e appone il suo segno.

GIUGNO 2006

DUCCIO TROMBADORI, Un canto sospeso sul “dopo-mondo”

Quando il silenzio è di scena forse la vita è altrove. Di sovrumani silenzi e di vita che è altrove parlano le immagini distillate da Iros Marpicati nel repertorio di una memoria sincopata al ritmo ineguale del sostegno visivo che ne forgia il diagramma.

Grida che ammutoliscono, stridore di meccanismi, luci d’obitorio e di laboratorio insonorizzato ostentano l’immagine dell’uomo come testo di una imperiosa e innaturale eccedenza d’essere: macchinari, congegni, ingranaggi, figure smisurate dell’intelletto tecnico moderno diventano il simbolico fondale di una foresta pietrificata dove l’inerte avventura esistenziale dei corpi appare manipolata da oscene e inusitate potenze mentre prolifera un paesaggio di minerali disarmonie.

E siamo però già di gran lunga fuori da uno spettacolo di allegorie: la vita è qui piuttosto messa tra parentesi, in una dimensione anestetica, così che il mondo sembra ormai trasfigurato in un “dopo-mondo”, con lo spettacolo di una umanità deietta in un al di là squadernato senza remissione.

È il “day after” difficilmente tollerabile di una contemporaneità che vive “nel vuoto dell’uomo scomparso”, per dirla con il disperato positivismo di Michel Foucault. Il pittore insegue questo pensiero etico, lo fa maturare esteticamente al fuoco lento della memoria, filtra immagini ed esperienze vissute, ascolta sonorità interiori che lo invitano ad immaginare spazi senza confine, laminature e profilati industriali inseriti al modo di una quinta per impostare i suoi trittici, i suoi panorami, le sue note con candide Ofelie in mezzo al diorama di una intermittente e universale infelicità.

Una siderale ansietà si consuma nel diffondersi di fredde luci emerse dalla penombra, lavorate col bulino e lo smeriglio di un attento coreografo di situazioni esistenziali immaginarie che compongono il monodramma visivo nel meticoloso procedere della pittura. Testimone e martire di una intensa esperienza espressiva, Iros Marpicati precisa il suo stile mettendo l’accento sul valore compositivo del dramma esistenziale.

L’uomo del nostro tempo, questo irredento sconosciuto, è il percepibile “hollow men” di una vita adulterata e senza storia che mostra a malapena un cosmo di parvenze, fuochi fatui o gusci vuoti di illusorie armonie.

Anche il dolore e lo strazio sono documentati nella fredda oggettività di un silenzio irreale. E i passaggi dell’esistenza umana si enunciano in una simile Morgue dove tutto è silenzio senza il conforto apollineo di lusso, calma e voluttà. Dominato dalla sua intensa e drammatica maniera di vedere Marpicati dipinge in un certo senso sempre il medesimo quadro (privilegio esclusivo di chi ha una intensa passione poetica) come fosse la prima volta: una partitura vibra per poche varianti cromatiche e riconduce lo sguardo ad effetti di profonda e inquietante meditazione. Forse non era così diverso il suo segno nemmeno quando, mezzo secolo fa, l’attenzione si rivolgeva al dramma esteriore del corpo di “contadina che riposa” (1958) o pure al graffio impressionato nella immagine dei “gelsi divelti” (1959): e già il naturalismo espressivo intriso di passione e ideologia levigava motivi di assoluta astrazione dal tratto vibrato alla compassata linearità (eco vicina e lontana delle emozioni di un Franz Kline, di un Wols, di uno Hartung). Ma il richiamo di realtà non poteva venir meno in una poetica che si concentra sui traumi indotti dalla infernale potenza moderna (tecnologia, guerra, rapina economica, distruzione della natura e sconvolgimento sociale) e china lo sguardo sullo spaesamento della coscienza e l’immiserire della condizione umana fino al limite della dissoluzione.

I fatti al cospetto di una delicata sensibilità producono imprevedibili scintille visive e lasciano tracce evidenti nel richiamo corrente allo “Hecce homo”, tema sempre presente in qualche modo nella poetica e nella figurazione di Marpicati.

Vicino ai protagonisti lombardi del “realismo esistenziale” (Ferroni, Bodini, Romagnoni, Guerreschi) egli ha però voluto distinguersi cercando piuttosto di tenere fermo il principio formale tendendo così l’occhio su trame visive di più rigorosa astrazione. Nasce di qui la tendenza stilistica a non sovraccaricare la pittura di elementi narrativi o descrittivi, a togliere più che ad accumulare, fino alla redazione di pagine visive in cui l’emotività si rapprende in ordinate composizioni per luminosità diffuse, tenui sfumature smaltate, sagome e profili di astratte corrispondenze come nel bel mezzo di una sinfonia atonale.

Il riferimento costante (quasi una consanguineità morale e intellettuale) alla radice estetica espressionista, ma non informale, ci presenta così il programma di una pittura ricercata e straniante, che raffina l’esecuzione figurativa (il fervore emotivo è trascritto in una oggettività quasi gelida) in vista di effetti di trasparente inquietudine.

Si alternano campiture che oscillano dal rosso al nero fino a fondi lavagna, in una luce d’interno quasi glaciale che sormonta la patina trapunta col fiato di corpi umani squadrati da ogni lato, in un esame di anatomia che contrae ogni emozione e però non la sopprime. Adolescenti, ragazze, uomini glabri o calvi come i poveri corpi senza identità dell’universo concentrazionario animano la visione di Marpicati come il registro di un documentario fatto in presa diretta.

Ed è invece la immaginazione sintetica a produrre un simile scenario come un testo (o un “grido”) da interrogare e analizzare: a questo uomo offeso, ridotto al grado zero della sua essenza vitale, si rivolge l’attenzione del pittore, per farne il centro di una dolorosa e persistente metafora. Torna non a caso un chiaro motivo ispiratore nella “Colonia penale” di Kafka (con l’odore di sangue come effetto traumatico, e le immagini quali aghi di ghiaccio taglienti come lame) nel “Canto sospeso” di Luigi Nono (con le parole dissociate nel sacrifico dei partigiani o dei perseguitati ebrei) nei turbamenti compositivi della “Suite” di Alban Berg o nelle inquiete invenzioni di Bèla Bartok e Serghej Prokofief.

Più che realtà visionaria, è un pensiero “ad occhi chiusi” che Marpicati stende sulla tela inseguendo le tracce di motivi musicali sospesi e gridati nel vuoto, pari ad una musica di Luigi Nono tradotta in bianco e nero grazie ad una spigolosa teatralità.

Monocromìe che disegnano profili d’angelo suggeriscono un cosmo irto di tensioni inesplicabili in cui si consuma il rito sacrificale della morte senza speranza di resurrezione. Vengono in mente gli “universi orrendi” evocati da Pier Paolo Pisolini singolarmente immersi in una atmosfera di ermetico “voyage à l’Enfer” dove tutto brilla come un diaspro, ma nulla palpita, nulla si esprime, nulla risponde al respiro della vita.

Parabola del tempo quasi monocromatica, l’esecuzione pittorica di Marpicati è il punto di approdo di un rigoroso progetto visivo controllato soprattutto sulle parti emotive ed esistenziali. La pittura, o spruzzo, le tecniche miste di ritaglio e configurazione dello spettacolo dipinto, suggeriscono partiture di piani e racconto che dissociano o giustappongono soggetti diversi: un corpo umano è trafitto o compresso da una figurazione astratta, e il fondale generalmente a geometria variabile ricorda situazioni di spettrale abbandono industriale (la periferia, lo sbucare di una ciminiera, il profilo aguzzo di una macchina, di una ruota dentata, eccetera).

C’è un effetto di sospensione drammatica in queste immagini che traggono alimento primo dal disegno a china o pure inciso, come in certe silografie di Barlach, o di Lovis Corinth, a volte rianimando la scena con balzi del segno, quasi per evocare le tumultuose apocalissi figurate da Ludwig Meidner.

Il senso architettonico e teatrale è ben messo in evidenza – come nella “montagna di cristallo” di Bruno Taut” – al cospetto di un vuoto che indica il cuore della azione (la “bambina coricata”, il trittico del “sonno”, il “territorio aggressivo”, gli “interni ostili”: ecco alcuni titoli dei dipinti) dove paesaggi taglienti, verticali o crudeli, stringono in torchio le figure di una immeritata passione.

La presenza di esseri addormentati, o lievemente assopiti, suscita un sentimento di contrasto proprio al cospetto della insidia ambientale imminente. Qui risiede il principio stilistico di una composizione che ripete il motivo espressivo a scopo deformante, onirico e spettrale. E noi fissiamo l’immagine accuratamente definita come l’istante del fotogramma, il passaggio isolato di un film destinato a coinvolgere la commozione estetica del profondo (come il “Nosferatu” di Murnau, o il “Caligari” di Wiene).

Ad una muta pellicola cinematografica si può infatti paragonare l’immagine realizzata in tal modo da Marpicati: dove il movimento è tanto più suggerito proprio quando perfino il respiro è sottratto alla azione, e restano impassibili unicamente le positure dei corpi, i gesti e le corrispondenze di geometrie inattese. Tempo di interrogare, tempo di attesa. E per trovare concordanze con le intenzioni di Marpicati basterà ricordare lo spirito di Schönberg nella sua musica da film (la “Begleitmusik für eine Lichtspielszene” del 1929) con le famose tre parti in una: “pericolo minacciante”, “paura”, “catastrofe”.

Tutta una figurazione esangue, il profilarsi di trame rettilinee o diagonali incrociate come sussulti dell’anima lasciano pensare alla figura di mantide religiosa che nella dimensione umana contemporanea ha potuto assumere il prodotto della meccanica industriale, con la sua fatale attrazione di delirante “macchina celibe”.

Questa ed altre suggestioni si esprimono nel “canto parlato” messo in scena da Marpicati con le esangui figure ad occhi chiusi, vittime sacrificali esposte a fondali ciechi come proiezioni di stati d’animo, urli o parole-forme dilatate in canto che vibra nella notte. Così ogni quadro è il teatro di una lotta accanita di opposti sentimenti e tensioni espressive: un principio effusivo che punta al traboccamento delle linee e dei colori (quanto lontano è Marpicati, e pure collimante nello spirito, dal mistico effusivo Arnulf Rainer) e un rigido contenimento di forme che esaltano l’emozione nella resa di campiture desolate, sotto il grigio velato di una eterna periferia.

Una dolente fontana di melodie trilla nella mente di chi osserva lo spettacolo silenzioso dipinto da Marpicati: giovani donne, bambine imprigionate, ed altra umanità si dissolvono in contorni definiti attraversando il paesaggio “tagliente” che le avvolge e le contiene.

La semplicità delle forme e dello stile che dà corpo all’insieme figurativo impone allo sguardo una “sorgente irrefrenabile di senso” (Walter Benjamin) nella immacolata compiutezza di corpi e cose. E nella sovrapposizione degli ordini formali (spazi dilatati, oscurità di tono, emergenza di misure umane diafane e immobili) una luminosità irreale armonizza stratificazioni di artificio e vita, come fossero parole spezzate, fasce sonore che incidono nella mente la memoria di una tragedia incompiuta, senza probabilità di purificazione.

Tutto è attesa non contemplativa nella smaltata figurazione eseguita da Marpicati. Tutto, nel suo inquieto spettacolo dipinto, sollecita una diretta esperienza emotiva e intellettuale dello spettatore. Ne risulta così un mirabile “canto sospeso” che dispone lo sguardo all’imprevisto e allo sconosciuto con la virtù di una visione in cui la fragile intimità della natura umana – umiliata e offesa – pone brucianti domande sul senso del tempo e dell’esistenza nell’arida stagione del nostro presente.

SETTEMBRE 2006

FABRIZIO D’AMICO, L’ansia e la bellezza nella “figura” di Marpicati

“Per le stesure grandi uso smalti spray; e per le figure utilizzo sempre gli stessi smalti, usati però in maniera leggera, quasi evanescente, così da ottenere l’effetto di grandi acquerelli che successivamente verranno rielaborati e potenziati con materiali di vario genere: pastelli a olio sfumati, conté nei due colori nero e seppia; infine, per ottenere le luci del corpo, pastelli colorati che verranno poi fissati”: ha sempre poco amato dire di sé, Marpicati, della sua poetica e fin della sua tecnica (le parole citate, che ora in parte la descrivono, sono il frutto di una mia interrogazione, per la quale mi sono sentito persino invadente). Che è, al contrario, lenta e studiatissima, e che – con l’aggiunta, a quelle ora confessate, di strumentazioni di sua invenzione e di un sapore antico, fabbrile, (“l’utilizzo di sagome e mascherine in cartoncino ritagliato in forme rigorosamente astratte” e “la stratificazione polimaterica di frammenti di legno, di cartoncini e carte ritagliate al fine di creare giochi tridimensionali sulle superfici”, secondo quanto ha elencato alcuni anni or sono Valerio Terraroli) – spiega già tanto del suo approccio complesso all’immagine.

Perché la sua opera, dagli anni della prima maturità – i Sessanta – ad oggi, è stata in qualche modo, mi pare, segnata da questa affezione quasi artigianale ai materiali prescelti, alla loro lenta stratificazione. Essa ha avuto le mosse alla fine degli anni Cinquanta, con dipinti che stringevano assieme un espressionismo dolente e straziato, figlio di quanto allora, a Milano, (dopo l’Accademia Carrara di Bergamo, con l’alunnato presso Funi, Marpicati è a Brera, oltreché al Politecnico, dove studia architettura) ad alcuni giovani, cui certo Marpicati ha guardato con interesse – e fra essi, eterodosso anch’egli rispetto alla situazione realista, Franco Francese – sembrava fondativo (Permeke, forse, sopra tutti). Allora una tensione verso una pennellata urgente e quasi gestuale, dimostra di nascere sotto l’egida di tensioni l’un l’altra cozzanti, e apparentemente inconciliabili. Tensioni opposte e confliggenti che tutta la storia successiva del pittore bresciano sapranno confermare: già allora leggibili nello iato che corre fra l’ottuso dolore che governa un’immagine come la Donna con vinchi, il cupo simbolismo dei Girasoli bruciati e l’ira iconoclasta del nero coprente del Gelso divelto: dipinti, tutti, risalenti allo stesso anno, il 1959, che dicono d’un animo in lotta fra ansia di rapporto e preoccupazioni d’ordine più strettamente formale; fra costrizione e slancio, fra bisogno di parola e grido inascoltato.

Il dilemma fra aderenza alla vita e sua trasfigurazione cresce sino all’acme toccata a metà degli anni Sessanta: quando – appoggiandosi già ad una sapienza tecnica da dir in tutto personale – Marpicati giunge a coniugare per la prima volta compiutamente il mondo dell’uomo con quello di un allucinato macchinismo, che preme e assilla con le sue forme scheggiate e taglienti gli sparsi lacerti di figurazioni organiche (così, ad esempio, Incidente n. 1 Incidente n. 2, del 1964). Trovando ora qualche singolare parallelismo, quest’immagine violata e dolente, più che con i prossimi sviluppi di forme lombarde di realismo esistenziale, con il particolare realismo del gruppo Zebra tedesco, con cui Marpicati condivide peraltro, almeno – se non un di fatto improbabile rapporto diretto – la comune radice affondata in certo, ormai storico, espressionismo nordico.

I titoli d’anni Novanta – per giungere d’un balzo alla più recente operosità di Marpicati, le cui soluzioni formali, lungamente e conseguentemente da allora ribadite, dichiarano giunta la più colma maturità – confermano la chiave stilistica che occorre riconoscere ormai come dominante. Territorio aggressivoPaesaggio taglientePaesaggio crudele narrano di gelide prospettive (condotte sul limite dell’astratto, e con la loro spiccata memoria di incastri e angolosità costruttiviste, forse mediate a Marpicati dagli studi di architettura) di spazi violati, abitati da minacciose, alienate presenze in un paesaggio urbano devastato da una violenza destruente; spazi, percossi dall’affanno, nei quali gli aspri contrasti cromatici si svolgono come raggelate battaglie che abbiano avuto luogo, tanto tempo fa, nell’atmosfera irreale d’un pianeta alieno. In questo “geometrismo gelido”, in questo linguaggio – rispetto a quello che l’aveva preceduto – “più duro, come raffreddato, ed essenzializzato”, ha ben scritto Luciano Caramel che Marpicati trova infine se stesso, e il suo luogo: che – se è quello, ancora, d’una “città spietata”, come altra volta l’aveva definito Mario De Micheli – è ora immaginato e raffigurato, scrive ancora Caramel, “fuori d’ogni polemica sociologica, e invece come rispecchiamento psicologico del vissuto […], proiezione di un profondo, individuale malessere”.

Che quegli spazi, infine, Marpicati abbia voluto e saputo, ormai da molti anni, dividerli, sezionarli e come arginarli, contenendone seppur a fatica la minacciosa, invasiva incombenza, e lasciar che dentro di essi sbocciasse, attonita e quasi stupita della sua casta bellezza, la figura umana, reclina, avvolta di sonno e insieme di sogno, spesso sfiorata da un veloce sorriso – “corpi disegnati e dipinti con eccezionale perizia”, scriveva Caramel, giungendo a dar figura seducente e ambigua ad un “languore insieme sensuale e spirituale” – non credo significhi che sia svanita del tutto quella “presenza del dolore, del dramma, dell’amarezza del mondo” che, ormai quasi cinquant’anni or sono, De Micheli correttamente riconosceva alla base del particolare espressionismo di Marpicati. Ma solo che nell’immaginario del pittore, singolare “simbolista del Duemila”, come annotava Elena Pontiggia, si sia scavato negli anni un pertugio, un’ansa di silenzio, donde sia possibile guardare al mondo con una nuova speranza, volgendo “il teatro dell’angoscia di tanta pittura espressionista” in “una voce sommessa, che non cancella il dramma, ma lo rende più misterioso”, più complessamente umano.

OTTOBRE 2006

GUIDO GIUFFRE’

Al primo sguardo il lavoro degli ultimi dieci quindici anni di Iros Marpicati parrebbe rivelare in sé, se non una contraddizione, certo una accentuata, evidente dialettica non fosse altro di tipo linguistico. Precisiamo intanto che per l’artista bresciano – a proposito di linguaggio – vanno scavalcate le labirintiche e in tanta misura oziose vicende dell’arte (arte?) di oggi. La forma, qui, è forma, l’immagine immagine. Ma netto in quel lavoro appare lo stacco tra fatti formali la cui remota matrice può farsi risalire alle avanguardie europee, ed altri più dichiaratamente figurativi:dall’esplicita (e sapiente) citazione picassiana, a compiacimenti descrittivi riscontrabili in tanti recenti pittori ad esempio italiani o spagnoli. La mano di Marpicati è abilissima (questo salta gli occhi), ma la mano dice poco; quello che conta è lo spirito che informa e tende l’immagine, l’umana tensione. E questa in Marpicati è assai forte, coerente, cocente.

Ma vediamo di avvicinare la dialettica in qualche misura oppositiva cui si accennava. Da un lato dunque un impianto astratto, tagliente, serrato, a sua volta articolato in stilemi personali ma in cui s’individuano echi che vanno da Mondrian a Malevlc a Léger: vuoi bidimensionali, di superfici piatte, vuoi con affondi spaziali che alludono a nuvole, cieli, spazi inafferrabili. Già questo parrebbe porre un problema di compatibilità, superato tuttavia da una tensione, appunto, stringente, trascinante, e per ciò stesso unificante. Ma l’altra componente, quella figurale, rende le cose più complesse. Tanta critica ha insistito sull’aspetto affettivo dell’adolescente raffigurato, quasi sempre il medesimo, di cui è stata posta in rilievo (sia pure nel drammatico contrasto con l’asprezza del contesto) l’innocenza, la bellezza, la purezza, senza sottacere una sottile vena sensuale.

È chiaro che a Marpicati non interessa, qui, la bellezza in sé. Il giovane finemente disegnato è la vittima, com’è stata definita, e più ancora l’emblema di quanto l’indifferente ferocia della vita di ieri e di oggi spietatamente sacrifica. La sfida di Marpicati non è tanto o soltanto tra due aspetti del mondo: da un lato una macchina (d’industria o di guerra, di avanzate tecnologie o di profitto) che schiaccia crudele e indifferente soffocando ogni spazio di sensibilità, di sentimenti, di valori – e dall’altro la nostalgia di valori, appunto, di sentimenti, di umana sensibilità. È anche il tentativo di rapportare e di far coesistere, come si accennava, due modalità linguistiche che hanno avuto percorsi diversi, e che assai sommariamente si possono definire astratta e figurativa. C’è di più. Se l’approccio all’immagine avviene all’insegna di una fiera drammaticità, evidente è anche il tentativo così spesso magistralmente riuscito di rendere drammatico l’assetto formale che si direbbe meramente astratto. Non sempre infatti Marpicati inserisce nelle sue composizioni la figura umana; quando è presente essa appare stretta tra quelli che l’artista definisce eufemisticamente paesaggi, e che sono piuttosto (pure alludendo a uno spazio invivibile ma ineludibile) indecifrati macchinari pronti a colpire, ferire, uccidere. Allora la figura è elemento del confronto tra dolcezza e brutalità, sguardo amorevole e cecità omicida. Ma nel raffronto resiste sovente un sovrappiù contenutistico, quasi venisse affidato all’immagine un messaggio anche troppo esplicito. Il giovane evade nel sonno dell’innocenza, i suoi tormenti (come le sue dolcezze) sono paventati e insieme sognati, e gli uni e le altre non sempre evitano un margine di pur allarmante didascalia. Ma quando il messaggio non è più tale, riassunto nella pregnanza e tesissima vitalità della forma (Agonia di una mantide n.1 e n.2, Per un quartetto di Béla BartòkTerritorio aggressivo, o i meno recenti Paesaggio taglienteRicordo di due paesaggi), nessun residuo variamente sentimentale aduggia l’immagine , nessun suggerimento di compassione o di rivolta. Ferma e feroce, categorica, inderogabile come il fato ed esaltante nel suo disegno tragico e perfetto, la forma si fa essa stessa parola e dramma, pena e riscatto. Nella complessiva, coinvolgente densità del lavoro di Marpicati questi sono a parer nostro gli esiti più alti, e di gran livello.

MARZO 2007

ALESSANDRO RIVA, Lo spazio del sogno e le metafore della visione 

Di che sonni dormono, e, dormendo, che cosa sognano, gli uomini e i ragazzi addormentati di Iros Marpicati? Di quali trame, di che metafore, di quali intrighi onirici e complessi meccanismi sono fatti i sogni di quegli uomini che, come l‘Ermafrodito dormiente di Palazzo Massimo a Roma, o parimenti quello, splendido, del Louvre, si lasciano andare alla libera circolazione dell’immaginazione di altre sfere d’esistenza, mentre il corpo complesso del reale continua imperterrito, di fianco a loro, il suo monotono marciare?

Iros Marpicati è pittore denso di significati stratificati e sovrapposti, e al contempo semplicissimo – di quella semplicità che tocca a chi ha gusto, capacità, intelligenza e buon mestiere – narratore di metafore e di storie che partono dal profondo del nostro inconscio collettivo. I suoi larghi e compositi pannelli, i suoi dittici e trittici saldamente costruiti e assai sapientemente disegnati e dipinti secondo complessi schemi compositivi e pittorici, fatti di materiali sovrapposti e tecniche intelligentemente mescolate – dallo spray al disegno a carboncino alle mascherine e via dicendo -, i suoi grandi quadri sorprendentemente strutturati secondo tecniche e riferimenti profondamente ambigui – nel senso dell’evidente impossibilità di essere ricondotti a un’unica tipologia stilistica, linguistica o compositiva, data la loro origine naturalmente meticcia e stratificata, dove l’astratto e il figurativo, il disegnato e il dipinto, lo sfumato e il nettamente definito si affiancano e si accompagnano, arricchendosi l’un l’altro con inusitata forza e forte capacità metamorfica -, i suoi grandi scorci visuali-narrativi, dicevo, dove le immagini evidenti e le strutture inconsce del sogno e del pensiero si intrecciano e si compenetrano a vicenda, ebbene, questi complessi puzzle pittorico – visuali sono un ottimo esempio di quella persistenza della pittura, quale luogo metaforico delle nostre espressioni più profonde, ai traumi, ai drammi, agli iati e agli scossoni che la contemporaneità ogni giorno ci getta addosso, costringendosi a rimettere in discussione e modelli di pensiero, e schemi narrativi, e topoi visuali e linguistici, nel tentativo disperato di imitarne la capacità mimetica, la potenza comunicativa e la capacità di auto-rinnovarsi in continuazione e senza sosta.

Persistenza – e modernità – della pittura, dicevo, in quanto pittura non legata e re-legata a cliché vecchi, morti, sorpassati, bensì in grado di mutare e di rigenerarsi in continuazione: pittura insieme bella da vedere e al tempo stesso composita, complessa intellettualmente ed eticamente densa, dove il gioco compositivo dei vuoti e dei pieni, dell’equilibrio dei pesi e dei riferimenti consci e inconsci si struttura in immagini complesse, fortemente articolate, morbide e sensuali a tratti e a tratti invece dure, spigolose, irte di angosciose punte, di architetture e forme altamente misteriose e che sempre rimandano a immagini rimosse e sensazioni celate nel più profondo del nostro animo, e poi ancora ombre, sagome, strutture architettoniche fantasmatiche e suggestive, di cui non sappiamo rintracciare mai l’origine, e che pure ci colpiscono e ci feriscono come stilettate per la loro inveterata capacità di risvegliare in noi pensieri, sensazioni, echi di sogni mai del tutto sopiti. Il continuo sdoppiamento tra queste forme, queste non-immagini prive di riferimenti e di cliché, e l’iconografia, fortemente sensuale, di uomini e donne addormentati, agisce, a livello inconscio o pre-conscio, su chi guarda mettendo in moto sensazioni e associazioni di idee che richiamano differenti livelli di coscienza, non soltanto estetici ma psicologici, quasi questi quadri parlassero a una zona oscura della nostra intimità, a un io sotterraneo, subliminale, dove le strutture del pensiero e delle sensazioni sono ancora fluide, magmatiche, lievi e oscure, come lievi e oscuri ci appaiono, a posteriori, certi bizzarri sogni mattutini.

Il luogo da cui queste immagini sembrano sgorgare richiama alla mente, non a caso, quello che Ovidio, nelle Metamorfosi, descrive come l’antro dove vive Sonno, nel paese dei Cimmeri, in una “spelonca dai fondi recessi”, sempre immersa “in un chiarore incerto di crepuscolo”, piena di “nebbie e foschie che esalano dal suolo”, e dove “non si ode suono, non di bestie selvatiche, non di greggi, non di rami all’alitare del vento, né umano vociare. Solo dal basso di una roccia sgorga un rivolo del Lete, e l’acqua scivola via mormorando tra il brusio di piccoli sassi e concilia il sonno”.

Ed ecco, allora, che quegli stessi personaggi sapientemente disegnati, quei volti distesi di ragazzi e ragazze abbandonati nel sonno come vittime sacrificali, persi nel labirinto dei propri sogni, così com’era persa nel sonno Arianna quando, a Nasso, Teseo l’abbandonò al suo destino, ci appaiono come strani simboli di un passaggio segreto, nascosto, tra questo e un altro mondo, tra queste a un’altra dimensione, sospesi, come sono, tra realtà e sogno, tra contingenza del quotidiano e un altrove della coscienza, tra razionalità e desiderio; c’è in quei gesti di seducente abbandono al sonno quel senso di strano incantamento, quella sensazione di tensione trattenuta e mai spiegata, ridotta all’osso, al suo estremo limite simbolico, che fa del lavoro di Marpicati un caso assai originale nel panorama italiano contemporaneo; quell’atmosfera rarefatta e stranamente glaciale, che risveglia in noi una strana memoria simbolica, profonda, di qualche cosa di non detto, di non rivelato ma di intimamente sentito, come quegli strani sogni da cui ci svegliamo all’improvviso, in un bagno di sudore e con il cuore che batte a mille, non perché sia successo qualcosa di particolare, ma perché qualcosa non è successo, qualcosa ci è stato solo suggerito dal movimento di una mano o di un braccio che pareva alzarsi al rallentatore, da una bocca aperta da cui non esce suono, da un’espressione che, senza sapere bene il perché, ci ha gelato improvvisamente il sangue e ci ha dato la sensazione che qualcosa di grave stesse o dovesse essere lì lì per accadere. Di questa atmosfera, oggi, sono intrisi i quadri di Marpicati, capaci di fornirci una chiave d’accesso verso un altrove, un sentimento d’inquietudine e di mistero che solo la pittura appare oggi in grado di darci. Un senso dell’insondabile, e di fortemente simbolico, e di religioso, quasi, in questo cercare nel mistero di un corpo abbandonato nel sonno, come avviene per il meraviglioso Ermafrodito di Roma e di Parigi, il varco che conduca altrove, in un mondo di cui ancora non conosciamo, nonostante tutto, le regole e la geografia, novella rivisitazione di quell’inconscio novecentesco di cui sembriamo da tempo immemorabile aver perduto ogni chiave d’accesso. E tanto più le situazioni appaiono, se non proprio normali, per lo meno ammantate d’una apparente normalità, tanto più l’apertura verso questo altrove si carica di forza e di mistero; e tanto più i quadri sono tenuti insieme da una composizione ferrea, rigorosa, da un freddo e calibrato bilanciamento dei toni e delle ombre, dei pieni e dei vuoti nel gioco di composizione tra astrazione e figurazione, tanto la sensazione di inquietudine e di straniamento si amplia e si ingigantisce. Ecco, allora, che non per caso i quadri di Marpicati tendono sempre più alla stilizzazione e al rigore compositivo: dove la folle struttura del sogno si fa più ferrea, essi diventano lo specchio di una realtà che sembra andare scomparendo sotto i nostri occhi, e che tende a divorare con la sua presenza ogni cosa – la nostra memoria, i nostri affetti, la stessa realtà sensibile che ci capita tutti i giorni sotto i nostri occhi, e che per questo crediamo, a torto, di poter vincere, irregimentare o – addirittura – controllare.

Il lavoro di Iros Marpicati si situa, così, in quella misteriosa zona della visione, quel luogo mentale, fortemente onirico – eppure stranamente reale, dal momento che esiste, di fatto, come entità autonoma se stante, e in quanto tale è ormai conosciuto e ampiamente riconoscibile da un pubblico assai vasto – di strana sospensione delle nostre coordinate visive tradizionali. È lo spazio interiore della pittura, naturalmente, uno spazio che vive autonomamente delle proprie leggi e dei propri codici interni, che l’artista dimostra di saper controllare con grande sensibilità visiva. Se, infatti, la realtà non si può irregimentare o controllare, lo spazio della pittura diventa, al contrario, il luogo dove è possibile, per lo meno, ragionarvi sopra, lavorarvi, giocarci con intelligenza, gusto, e sensibilità visiva.

AGOSTO 2007

GIORGIO CORTENOVA, Il gioco amaro delle ombre 

Ho sempre pensato che un gioco sia una trappola che ti fa pensare; e che una trappola sia come un’ombra che ti nasconde il cielo o ti trasforma in baratro la terra o ti oscura lo sguardo: trappole ombre pozzi in cui la mente precipita, e in cui il cuore rimbomba, sono tutti lì racchiusi nella pittura di Iros Marpicati, che ci risveglia memorie antiche e ci propone la capacità di raccontare per metafore e di alludere per sintesi geometriche.

La pittura è ombra della realtà: la superficie è il traguardo di uno spazio privato, che l’artista crea per se stesso e che di se stesso è ad immagine e somiglianza. Nulla è più pertinente alla sua arte di quanto non lo sia la simulazione di uno spazio che non è tagliente ma inesorabile, non è frantumato ma decisivo nell’ordine della moralità e dell’etica, se ancora i termini ci sono concessi. Voglio dire che Marpicati sa bene che l’immagine, nella sua astrattezza, è la traccia segreta della vita che scorre nel tempo, che a volte urla contro il tempo e che al tempo si ribella: e spesso rimane in bilico sull’orlo dell’abisso, risentita e scontrosa, carica di memorie e di proteste, di rivendicazioni e di sortilegi.

Un saggio cinese, che di ombre se ne intende, mi raccontava un giorno la metafora di un mago che con le mani proiettava in parete le forme più svariate del mondo in fattispecie di ombre. Davanti a quella di un leone con le fauci spalancate un uomo strepitò più degli altri irridendo all’inganno: “nessun inganno”, disse il mago; ma poiché l’uomo insisteva, lo invitò a infilarci dentro la sua testa: lo fece, l’ombra-leone chiuse la bocca e l’uomo stramazzò a terra decapitato. Storia terribile, devo dire, ma non tanto per il suo esito mortale, quanto per la drammatica concretezza del linguaggio e del gioco che vi è sotteso: della trappola che scatta rivendicando la propria forza simbolica fino al limite della realtà.

Marpicati frequenta da sempre questo profilo “ambiguo” delle cose, sulla soglia di un presente che raggela lo sguardo come un brivido inesauribile che tormenta la memoria e la speranza, la coscienza della storia e le tenebre del futuro. Le sue geometrie sono macchine non proprio celibi perché mietono vittime abbastanza appariscenti, vuoi rappresentate, come nelle trascorse stagioni, da una bellezza “crocefissa” nella sua improbabile ineffabilità, vuoi sintetizzate in un uomo-uncino, estraneo esploratore di una battaglia che avviene al di fuori della sua capacità d’intervento: tra un cielo che, tiepido, si espande negli azzurri lirici e tremanti del sogno, e un piano che, gelido, si sbianca nei geli del silenzio.

Breton sosteneva che qualsiasi gruppo di segni, collocati sulla superficie, vorticava impazzito fino a trovare una propria configurazione in ordine al subconscio che li aveva dettati. Per certi versi non vedo come dargli torto. Ora è evidente che Marpicati non è un surrealista; tuttavia, la sua frequentazione con i livelli visionari ed onirici del pensiero non ce lo rende estraneo a quel profilo sotterraneo, a quell’ “ictus” della ragione che si connette alla periferia dell’essere: dove il giorno e la notte, la luce e il buio, la realtà e il sogno, e molte volte l’incubo, convivono in un medesimo brivido della coscienza.

Ciò che mi colpisce, nei lavori di oggi e in quelli di ieri, è il fatto che tutte le nostre descrizioni, le trame simboliche che andiamo svelando alla luce di una personale esperienza visiva, potrebbero tutte tacersi, tramontare nei confini del discorso stesso: resta infatti l’organizzazione della superficie in forma di spazio; resta insomma una struttura satura di significato nella concretezza di una volontà espressiva che ha preso forma e che non ci richiede altre spiegazioni che già non siano raccolte nel principio stesso della visione.

Il nostro artista ha peraltro il dono di vivere la propria cultura, che è vasta e profonda, con una naturalezza che appartiene solo a coloro che non leggono e non si rivolgono alla storia per sapere, ma per capire: soprattutto se stessi. Da questo punto di vista egli appartiene a quella schiera di artisti che, da Gianfranco Ferroni a Giuseppe Guerreschi, hanno mostrato “la vergogna del corpo meccanico della modernità”, come magistralmente ha scritto Maurizio Bernardelli Curuz a proposito di alcuni suoi lavori. Ma poi, nel tempo, Marpicati ha dapprima deposto sulla tela la carezza di corpi avvolti nel sogno che, passivo, si mostrava ribelle ai dinamismi della trappola tecnologica. Al tramonto del secolo scorso, e agli esordi del nostro, l’artista lavorava di contrasto tra le perlacee bellezze delle membra umane e la tagliente ostilità della “tortura” astratta che tutt’attorno le assediavano con la pungente minaccia di un insetto mortale. Poi superficie e spazio, forma umana ed astratta, trovavano la sintesi più recente in cui le “classiche purezze”, di cui tempo fa opportunamente scriveva Rossana Bossaglia, vengono metabolizzate nella purezza classica di un’astrazione radicale, che incrocia i toni drammatici con quelli metafisici e la visionarietà “metafisica” con gli enigmi di oggi e di sempre.

In lui onirismo e visionarietà adesso “elegantemente” incrociano le rotte. Ma non c’è abbandono o distanza prefabbricata dal mondo. E la fuga è soltanto illusione. Ce lo dice chiaro un dipinto, appunto “L’Illusione della Fuga”: null’altro che un quadro che ripiomba nel quadro, un’ombra che ricade nell’ombra. Mentre il cielo degli uomini, come un’alba senza dimensione, si contrae lontano e sperduto nel perimetro di un’ennesima parete delle ombre. Un velo senza più amarezze: ma solo il silenzio abita il diaframma.

GIUGNO 2008

LORENZO CANOVA, Le forme del mondo artificiale 

Il percorso artistico di Iros Marpicati mostra un’umanità denudata e imprigionata, isolata e rinchiusa al centro di strutture misteriose e pericolose che la stringono nelle loro spire. L’artista rappresenta con un eloquente segno espressivo i corpi di giovani donne e uomini abbandonati in un sonno languido forse allusivamente sospeso verso una morte annunciata e incombente, nascosta all’interno di quei meccanismi sconosciuti. Marpicati dipinge con efficacia le anatomie di questi corpi utilizzando un linguaggio icastico fondato sul bianco e nero, posto volutamente in contrasto con il colore delle costruzioni e dei congegni serrati intorno alle figure. Il pittore ha infatti scelto con intelligenza uno stile freddo, basato su stesure piatte e su accostamenti di zone cromatiche generate dalla visione analitica di una nuova oggettività contemporanea e dal rigore quasi classico di un rapporto al contempo stridente e calibrato tra i corpi e le architetture. Come celle inesorabili e letali, gli interni, gli spazi industriali, i panorami meccanici si trasformano pertanto in carceri spietate, in stanze di una tortura mortalmente sensuale che si insinua nelle tenebre del sogno per riscuotere il suo tributo di carne e di vita. Marpicati opera allora come l’architetto di un incubo, l’evocatore di angosce capace di rivelare con i suoi ingranaggi le verità sotterranee e terribili di un mondo dimenticato ma tremendamente reale. Quelle figure potrebbero essere allo stesso tempo creatrici e vittime di queste strutture aggrovigliate e allarmanti, di labirinti perversi che un giorno forse saranno capaci di fare a meno dei loro stessi inventori. Queste composizioni complesse diventano quindi delle forme simboliche cariche di riferimenti emblematici interpretabili a diversi livelli e non a caso collegate spesso dall’artista a suggestioni kafkiane. L’artista ha infatti recentemente concesso ai suoi prigionieri una falsa illusione di fuga, una prospettiva di libertà destinata molto probabilmente a rivelarsi fallace e crudele. Così nel suo ciclo più recente, Marpicati ha realizzato opere apparentemente astratte, ma rese ancora più acri e dissonanti dall’assenza dell’uomo. In questo senso ci si potrebbe allora chiedere se questi dipinti si riferiscano a un umanità finalmente liberata dai legacci che la avvincevano, oppure se non siano state quelle costruzioni enigmatiche a sbarazzarsi definitivamente dei loro inquilini indesiderati, di umani che scomparendo hanno lasciato spazio e libertà a un mondo abitato soltanto da presenze artificiali e inquietanti. Il cielo, che si faceva strada nelle geometrie sovrapposte dei dipinti precedenti per diventare quasi una speranza di salvezza per i protagonisti al centro dei quadri, adesso diventa il fondale di paesaggi industriali dove i giunti, le putrelle e le forme meccaniche si uniscono in connubi sterili e allucinati, formando territori desolati, luoghi disabitati e metallici dove il chiarore notturno sembra rischiarare le ombre di uomini dimenticati e lontani, spettri impercettibili richiamati a una vita effimera dalla luce gelida di una luna mostruosa. Questi deserti postumani formati dalle sagome scure dei rottami di distanti ere industriali denunciano così la natura allo stesso tempo lirica e disincantata dello sguardo di Iros Marpicati, la dialettica interiore che crea queste opere allo stesso tempo disilluse e poetiche, il mistero di quadri irreali e possibili dove il mondo sembra avere trovato un nuovo ordine, nuovi ecosistemi e una nuova armonia dopo la fine della storia e dopo la scomparsa dal pianeta dell’uomo e del suo corpo.

SETTEMBRE 2008

CARLO FABRIZI CARLI, La città ostile di Iros Marpicati 

Alla base della pittura di Iros Marpicati troviamo un motivo costante, il conflitto tra l’uomo e la città industriale; un contesto che, nella sua astratta e algida veste tecnologica, gli è ostile. Posto in questi generici termini, il tema non sarebbe affatto originale, potendo annoverare, da un secolo a questa parte, innumerevoli declinazioni tanto in pittura come in letteratura e nel cinema. Valgano soltanto, per quanto riguarda le arti figurative, le esperienze in ambito di Realismo esistenziale, che, oltretutto, dovettero rivestire grande importanza nel processo formativo dello stesso Marpicati. È però l’attitudine personalissima dispiegata dall’artista lombardo che il tema stesso rende inedito e inconfondibile.

A cominciare dalla città, che in lui risulta più allusa che descritta. Molti pittori (si riscontra infatti una discreta fortuna del tema) delineano con maggiore o minore definizione, ma comunque con evidente riscontro di particolari, presenze architettoniche reali o immaginarie, magari guardando proprio alle zone periferiche in cui s’impongono i massicci interventi di edilizia economica e dove più si avverte la loro carica massificante. Nei quadri di Marpicati scorgi invece delle sagome fortemente astrattive rispetto ad un vero fenomenico. Si tratta di una sorta di lame perentorie, dipinte con stesure piatte monocromatiche, nere e bianche (o comunque di colori molto chiari). Vi puoi leggere elementi costruttivi resi col massimo dell’icasticità; ovvero lame – appunto – di luce e d’ombra: ma l’impressione che suscitano questi elementi è sempre aggressiva e crudele. Riesce istintivo sospettarvi arnesi taglienti, punte, coltelli; puoi perfino riconoscervi una sinistra attrezzeria da stanza di tortura.

Marpicati dispiega nella esecuzione di questi resecati e serrati assemblaggi una consumata abilità fabrile, servendosi di sagome di legno, cartone e carta, utilizzate, via via, come maschere da spruzzo per gli smalti, ovvero applicate sul fondo pittorico, in modo da attribuire a quest’ultimo un andamento rilevato, tanto da accedere al registro linguistico del collage.

La fitta sequenza di scenari urbani che ci propone il pittore è, dunque, inquietante e desolata. L’architettura contemporanea, ha pure conosciuto una critica negativa, capace di essere molto severa nel deplorare bizzarrie progettuali e sudditanze ideologiche a spese del benessere degli abitanti; ma nel nostro caso, la denuncia assume un significato più esistenzialmente serrato ed è ben altrimenti drammatica.

Tanto più che i dipinti di Marpicati, tutti di grandi dimensioni, si organizzano spesso in dittici e trittici, dove queste sagome aggressive serrano e insidiano le presenze umane, che l’artista effigia in forma di giovani ignudi e bellissimi, tanto uomini che donne, delineati a matita e mediante il soccorso di una sapiente tecnica a base di conté e smalti spruzzati, dalla resa così accurata da suscitare, ai limiti del trompe-l‘oeil, in chi non conosca i procedimenti impiegati dall’artista, l’impressione di trovarsi in presenza di acquerelli.

A queste sue figure l’artista sembra assegnare un ruolo e un destino di vittime sacrificali; spesso sussiste il dubbio se esse siano affidate ad una condizione di sonno, o non piuttosto alla fatal quiete di quel sonno irrevocabile che è la morte. Questi corpi di venustà, evocati da Marpicati con una sapienza disegnativa oggi oltremodo rara da riscontrare in mostre e gallerie, recano il segno delle ferite, delle lacerazioni, degli oltraggi patiti dagli apparati suppliziali. Anzi certe luttuose lividure, talune raggelanti evocazioni obitoriali, sembrano accreditare, e nella forma più inquietante, la seconda ipotesi; seppure non univocamente. Certo, questi giovani anche quando si abbandonano al sonno, appaiono affranti, come in preda a deliquio, così da consentire pure l’ipotesi, avanzata da Elena Pontiggia, di uno stato di prostrazione erotica: e non è davvero il caso di insistere qui, in quanto davvero scontate, la diametralità oppositiva, ma anche l’affinità insite nella coppia eros thanathos.

A questo punto, i corpi e le presenze architetturali sembrano istituire, nell’ambito della pittura di Marpicati, una sorta di contrapposizione, per così dire, dialettica: dove il corpo costituisce il momento della fragilità e della tenerezza, e – sul terreno dei registri propriamente artistici – quello della pittura d’immagine, oltretutto improntata a una ricercatissima risoluzione grafica. Mentre al dominio architetturale competerebbe il momento del rigore; ponendosi pure come luogo della astrattività e del sintetismo.

Ma, specie nelle opere più recenti di Iros Marpicati, la figura umana appare anche in altra e diversissima attitudine e stavolta proprio in quelli di più esplicita risoluzione astrattiva (del resto, i due registri, quello astrattivo e quello figurale, si associano o si susseguono con una sorta di ritmo alternato, che il pittore assume, temporaneamente tralascia e poi immancabilmente riprende, come un duplice codice linguistico cui, anche nelle fasi in cui lo disattende, non è comunque disposto a rinunciare).

Ecco, dunque, che in queste desolate e ostili ambientazioni architettoniche si stagliano delle presenze umane che la distanza rende minuscole; figure che, in qualche misura, evocano alla memoria le piccole presenze umane che Piranesi, intriso di poetica del sublime, introduceva nelle sue incisioni per enfatizzare nel contrasto tra l’uomo e le mura, le proporzioni gigantesche delle rovine dell’antica Roma. Qui invece il rapporto si istituisce con le singolari evocazioni di ambientazioni urbane contemporanee, probabilmente attinenti ad un contesto metropolitano, altrettanto visionario e soverchiante nei confronti dell’essere umano.

Riesce istintivo interrogarsi sul significato di queste minute presenze: se i giovani corpi, così amorevolmente evocati e descritti da Marpicati, ci parlano di uno stato di costrizione, di prigionia, quale valenza dovremo allora attribuire alle evocazioni figurali degli approdi, a noi più prossimi, dell’artista lombardo? Un uomo liberato, finalmente uscito dal labirinto, ovvero un uomo ancor più ricacciato nel suo stato di segregazione senza speranza?

Marpicati non si esprime in merito, ma lascia aperto l’interrogativo. Trovo la circostanza un fatto assai rilevante: se la sua pittura, insomma, appare spesso il luogo dell’inquietudine e della sofferenza, dello smarrimento e dell’ansia, non è però il contesto della disperazione; in essa non viene mai meno lo spiraglio aperto oltre il pessimismo senza riscatto.

Forse, anche riguardo a tale opzione, riesce significativo il fatto che Marpicati sia pittore incrollabilmente legato, pur nel suo già riferito mutamento dei registri linguistici, all’atto del dipingere, alla pratica del disegno, alla fisica istanza del quadro.

Niente più, queste ultime, si sarebbe detto un tempo, che l’adesione ad un’istanza e ad un retaggio ancestrali. Ma oggi tale fedeltà si è fatta invece scelta di campo fondamentale; opzione nient’affatto scontata, anzi perfino francamente anticonformistica. Di sicuro, nell’ambito artistico e forse non in questo soltanto, una risposta non rassegnata alla deriva nichilistica.

Nota: nel 2011, il testo è stato riproposto in «Iros Marpicati – Il labirinto dei corpi sognanti», catalogo [mostra personale, Roma, Sala delle Capriate nel Chiostro del Bramante, 16/9-15/10/2011] a cura di Lorenzo Canova, nelle pagine 19-21 in italiano e nelle pagine 23-25 in inglese, tipografia CPZ (Costa di Mezzate, BG).

OTTOBRE 2008

FABRIZIO DENTICE, Elegie a due voci

Nel percorso di Iros Marpicati c’è un’idea-guida, una visione del mondo e del destino dell’uomo contemporaneo, di cui l’artista si fa voce, con accenti che svariano dal grido di dolore a una delusa e quasi ironica presa d’atto.

L’idea-guida non è nuova : germoglia da una frustrazione esistenziale ben percepita da altri artisti della sua generazione. Quel che è nuovo, e distingue Iros Marpicati nel nostro tempo, è il linguaggio, che si articola nel conflitto di due temi : l’uno, figurativo, l’altro che convoglia una forte valenza simbolica in forme astratte.

Il destino dell’uomo… È dire molto. Perché la vera domanda è se un destino per noi sussiste ancora o non più. Marpicati ci dice che se il destino del singolo va inteso come libertà di foggiarselo, o quanto meno figurarselo e proporselo, sottraendosi al modello che una civiltà devastante vuole imporgli, noi questo, davvero l’abbiamo perduto. Ne resta un qualche surrogato o via di fuga ? Chissà ! Magari basterebbe addormentarsi, sognare, chi ne è capace, o semplicemente rifiutarlo, questo “destino”, come un lusso ingombrante.

Detto così è materia di psicanalisi o letteratura. Marpicati ha il dono di farne materia di pittura. Inventa per intero un paesaggio di costrizione, raggelante ma intenso, per trattenervi l’uomo come una selvaggina in una rete. E lo ritrae, questo suo paesaggio mentale, con un repertorio di forme che appartiene a lui solo, e che diventa l’ossatura del suo linguaggio per ogni discorso. Quelle quinte nere, affilate come rasoi, quelle luci fredde di fondali indefiniti, quegli spazi neutri in cui balena il sussulto improvviso e sommesso di un colore.

Questa è pittura. E nell’alta definizione del paesaggio ostile, la comparsa dell’uomo è un incidente quasi esoterico. Perché con tutta l’accurata anatomia di quei bei corpi giovani e nudi, Marpicati ha l’arte di renderli presenze evanescenti come ricordi o fantasmi. Son lì, abbandonati o accartocciati in assolute passività; e non sai se dormono, o invece sognano soltanto, da svegli, per rifugio consolatorio, o semplicemente rimuovono il fatto di trovarsi sì, in quella costrizione, e non altrove, in una dimensione più ariosa ed umana. La sola libertà, cercata nel non essere.

Alla prova del tempo l’arte di Marpicati porta sorprese. Perché se dispensata dal servire l’idea-guida per cui è nata, la componente astratta del suo linguaggio acquista piena autonomia, come un alfabeto in mano a un poeta, con cui può scrivere qualunque cosa : la Vispa Teresa come Vaghe stelle dell‘Orsa… Lo dico avendo in mente soprattutto tre dipinti degli ultimi anni, che mi hanno colpito come una svolta piena di futuro : Per il “Canto sospeso “ di Luigi Nono, per “Il Passo d‘acciaio” di Serge Prokofiev, e Per un “Quartetto di Béla Bartòk”. Tre istanze in cui, parlando di musica come si può parlarne solo in pittura, il tema astratto, del tutto affrancato si fa lirico, con bagliori inaspettati. Detto alla buona, è come una bella donna quando si spoglia, e vedi cose che non vedevi prima. Basta aprire gli occhi.

APRILE 2009

ELENA PONTIGGIA, I paesaggi inospiti di Iros Marpicati 

Chissà perché il paesaggio, nella tradizione pittorica occidentale, è sempre stato prevalentemente legato a una nozione di quiete. L’interesse per la furia della natura e lo scatenarsi degli elementi (preceduto da un incunabolo come La tempesta del Giorgione, dove comunque si vede solo un lampo) si sviluppa solo col romanticismo e rimane minoritario nelle scelte iconografiche. Sembra insegnarlo anche l’etimologia, secondo cui “paesaggio” deriva da pagus, la cui radice pag è una variante di pakpace (in rapporto a sua volta sia con “pattuire”, che con “piantare”).

In realtà, visto che i paesaggi sono abitati dall’uomo, che è l’animale meno pacifico del creato, non si vede perché dovrebbero essere il luogo della pace. La natura stessa, del resto, può esprimere sentimenti di aggressività, e già Leopardi vedeva in lei non una alma mater, ma, al massimo, una matrigna.

Anche i paesaggi di Iros Marpicati (se così si possono chiamare, ma su questo torneremo) sono, per citare un titolo di Giampiero Neri, Paesaggi Inospiti.

Nelle ultime opere dell’artista compaiono strani ambienti kafkiani che sembrano, appunto, paesaggi ostili, oppure enormi congegni meccanici, aggressivi e minacciosi, entro cui l’uomo è come sperduto.

Le geometrie di lros hanno qualcosa di implacabile: si declinano in lunghe lame taglienti, in strette balaustre che si affacciano sul vuoto, in compatti blocchi neri che terminano con triangoli acuminati come stiletti malesi. Lì, tra queste forme contundenti e laceranti, compare una sagoma d’uomo tanto piccola che la distingui a stento. E’ poco più di un punto, di un granello di sabbia. Eppure queste forme, da cui l’uomo è come inghiottito, non hanno niente a che vedere con i paesaggi ottocenteschi che esprimevano il sentimento dell’infinitamente grande, del sublime. Pur nella loro disumanità, sembrano costruiti e per così dire approntati dall’uomo.

Prima esitavamo a definire queste opere “paesaggi”, e forse quell’indecisione non era priva di ragioni. Ci spieghiamo meglio. Dal punto di vista dell’estensione quelli che lros dipinge sono luoghi, non meccanismi. A occhio e croce, vista la dimensione delle figure, ci troviamo di fronte ad antri, canyons, crepacci.

Eppure, a guardar meglio, si tratta di superfici troppo geometriche per essere state generate dalla natura. Nessuna montagna, nessuna grotta ha mai avuto quelle forme. I loro giganteschi congegni possono essere stati fabbricati solo dall’uomo, perché la natura, quando crea, non usa il doppio decimetro. E anche se, come dicevano Galileo e Cézanne, il libro dell’universo è scritto in caratteri matematici, la sua è una geometria segreta, una matematica invisibile, non un profilo evidente.

Sembra dunque questo l’insegnamento degli ultimi, intensi quadri di Marpicati (che, provenendo dal realismo esistenziale, si è dedicato nei suoi lavori più recenti a composizioni in cui l’immagine è sempre meno evidente, sempre più mimetizzata. Un tempo si sarebbe detto che la ricerca dell’artista è passata dalla figurazione all’astrazione, ma oggi una simile contrapposizione è fortunatamente superata, perché si è compreso che in arte quello che conta non sono gli stili, cioè l’ideologia, ma il linguaggio, cioè l’arte stessa). Sembra dunque, dicevamo, che gli ultimi, suggestivi, quadri di Marpicati ci dicano di luoghi creati dall’uomo, in cui però l’uomo per primo si sente a disagio.

C’è forse in queste opere l’idea che l’età moderna ha modificato la natura (ma anche la città, gli ambienti di lavoro, gli ambienti senza aggettivi) fino a renderla, appunto, inospitale?

Oppure c’è l’idea che l’uomo, nell’affrontare la vita, si trova di fronte a un copione che non aveva previsto, e di cui non aveva immaginato le battute? In questo senso viene in mente, osservando questi lavori, un verso di Pasternak, tratto dalla poesia Amleto: “Vivere la vita non è attraversare un campo”.

Il verso, a prima vista, sembra significare che vivere non è passeggiare in un giardino, trascorrere i giorni tra cose belle e liete. Pasternak, però, aveva ripreso un proverbio russo, che andrebbe tradotto così: “Vivere la vita non è prendere la via degli orti, non significa trovare una scorciatoia”. Il poeta, insomma, non vuole dirci che la vita non è tutta rose e fiori (il che è ovvio), ma soprattutto che il suo percorso è già segnato, e che non si può scegliere a proprio arbitrio che strada fare. Anche nei paesaggi o negli ambienti di Marpicati succede qualcosa di simile. I suoi spazi appuntiti, destinati a ferire e perforare, sembrano immodificabili. L’uomo (quale sia stata la sua responsabilità nel crearli) non può fuggirli né eluderli. Forse perché quei luoghi sono interiori: sono lo specchio della sua stessa psiche.

Ma, allora, cosa ha dipinto lros? Prigioni da cui non si può evadere? Labirinti che torturano la

mente? Una natura ormai nemica?

Non sarebbe opportuno scegliere una sola risposta. Quando la madre di Rimbaud chiese a suo figlio che cosa avesse voluto dire in una sua poesia, Rimbaud rispose: “Ho voluto dire quello che ho detto, in questo senso e in tutti i sensi”. Anche nelle opere di Marpicati la risposta non può essere univoca. A noi basta osservare quelle forme insieme precise e sfuggenti, evidenti e incomprensibili, e meditare su quegli accordi di colore che portano nella composizione l’unica nota di armonia. In fondo lros non ha mai smesso di dipingere, come faceva nei decenni scorsi, il male di vivere. Possono cambiare i modi espressivi, ma rimane identica, inalterata, la loro dolorosa verità. Ed è questa che ci riguarda da vicino.

LUGLIO 2011

LORENZO CANOVA, Il labirinto dei corpi sognanti 

Un viaggio nel labirinto di un mondo meccanico e artificiale, la prigionia e l’abbandono dei corpi, gli ingranaggi che si fanno paesaggio e una luce che offre una speranza di salvezza: su queste coordinate si muove il lungo percorso della pittura di Iros Marpicati, nella sua lenta sintesi che ha trovato la qualità di una combinazione sempre più accentuata dei suoi aspetti formali e metaforici.

Nell’opera di Marpicati si uniscono infatti una serie di elementi che formano un quadro complesso e articolato in cui possiamo trovare un’acuta rielaborazione di alcune delle linee forti dell’arte italiana e internazionale tra Ventesimo e Ventunesimo secolo. L’artista, difatti, ha saputo dosare in modo sapiente la visione di taglio sociale e psicologico che indaga l’alienazione e la solitudine dell’uomo contemporaneo, la c1assicità e l’eros freddo dei nudi addormentati, la pittura di paesaggio urbano, periferico e industriale e un’astrazione geometrica che può ricollegarsi alle origini del pittore e che trova un’ascendenza delle sue scansioni strutturali nelle esperienze dell’astrattismo lombardo degli anni Trenta del Novecento.

Questo accordo è frutto di una storia iniziata negli anni Cinquanta che nei suoi diversi capitoli fa comprendere come l’artista abbia raggiunto la completezza e la solidità di uno stile declinato come una lenta strada di sublimazione attraverso la purificazione della materia pittorica, l’assottigliamento della pennellata e la rarefazione delle presenze iconiche.

Osservando le diverse fasi dell’opera di Marpicati a partire dagli esordi si comprende infatti come sia profondo il carotaggio di indagini che ha formato il tessuto denso della sua pittura fondata su una visione intensamente personale dell’arte e del mondo e che lo rende una personalità unica nelle sue specificità all’interno del panorama artistico non solo italiano.

Se si osservano le prime opere dell’artista si comprende allora che il suo interesse giovanile per il mondo dei contadini, la loro vita povera e sofferente, per il pathos dei loro volti e dei loro sguardi, nasca da un partecipe sostrato espressionista e drammatico che risente di un certo clima milanese ma che l’artista elabora in modo autonomo nell’evocazione di potenti suggestioni di Millet, Van Gogh, Sironi e, soprattutto, di Permeke. Quest’attitudine viene rinchiusa nella crudezza delle figure tracciate nel nero come se la pittura seguisse lo scavo nella materia della xilografia e dell’incisione e come se il colore a olio si trasformasse nell’abbrunato tormento dell’inchiostro che abbraccia i segni ansiosi e dolenti di un artista che condivide in modo bruciante il dramma vitale delle figure che ritrae.

Da questi presupposti l’artista ha sviluppato un discorso pluridecennale con molte declinazioni ma che potrebbe trovare nell’intensità del segno una delle sue costanti fondamentali, a partire dal Gelso divelto (1957) e dai Girasoli bruciati (1959) o dalle Contadine degli stessi anni, in cui è ancora il mondo rurale a dare vita a un’elegia lancinante in cui la cupa veemenza del tratto nero si immerge in una sera senza speranza attraverso una scansione energica e vibrante che definisce con vigore le forme e i chiaroscuri, gli inabissamenti notturni e i rialzi palpitanti dei bianchi. Questa linea è quella che approda, tra il 1960 e il 1962, alla fase più dichiaratamente informale dell’artista dove, ancora in un impianto fondato sul bianco e nero, le figure si annullano e il segno si libera in un discorso gestuale dove le memorie di Kline sono arricchite dal sentimento esistenziale dell’artista.

In un modo non lontano da quello di Pier Paolo Pasolini, Marpicati denuncia la fine del mondo contadino di cui aveva già dato una desolata testimonianza e si confronta con la nuova realtà metropolitana del boom economico, con le sue contraddizioni e le sue dialettiche. La nostalgia e la scomparsa di questo mondo possono essere alluse così nello scontro tra il monocromo dei fondi, nella contrapposizione violenta tra bianco e nero, che si disfa a volte nelle vibrazioni del grigio, e nel dinamismo delle pennellate che attraversano la tela.

Le prime presenze di paesaggi e composizioni meccaniche tracciate nella densità del colore gestuale diventano quindi segnali dirompenti di quella realtà parallela che l’artista comincerà a rappresentare di lì a poco nei suoi nuovi cicli pittorici.

Dal 1964 queste opere si trasformano così nelle strutture articolate e inquietanti degli Incidenti dove Marpicati prepara la stagione più matura (e oggi ancora feconda) del suo lavoro combinando le presenze dure e ostili di griglie – che ricordano le grandi esperienze dell’astrattismo geometrico – o strutture biomorfico-meccaniche dove, più che gli incidenti di Warhol, all’artista sembrano interessare certi aspetti dell’opera di Sutherland e di Bacon, intensificati però con un’atrocità fredda del corpo schiacciato dal metallo che sembra anticipare le agghiaccianti visioni cinematografiche di Alien e dei film di David Cronenberg con i loro riconosciuti debiti alle arti visive del Novecento.

In queste griglie dell’orrore e della morte le teste tagliate e urlanti sono incastonate negli incroci dei piani e delle linee e nelle strutture che formano delle anatomie metalliche e crudeli, dissezioni di corpi inglobati nell’acciaio che li ha divorati nell’attimo esplosivo e divorante dell’incidente che ha tolto loro la vita trasformandoli nel meccanismo spietato di un mostruoso congegno destinato a funzionare ancora dopo la scomparsa dell’uomo.

Tuttavia questa fase presentava ancora delle rugosità e delle asperità pittoriche che Marpicati ha avuto bisogno di raffinare anche grazie a una fase di silenzio che, nella sua incubazione meditativa, come in un arduo percorso alchimistico di elevazione dalla materia, ha portato a un’intensa e problematica leggerezza che rende ancora più decise le asserzioni delle sue opere sospese tra violenza e dolcezza, tra la grazia indifesa dei giovani corpi nudi e sognanti e l’aggressività del paesaggio e delle sue armature.

L’approdo di questo percorso è il lungo ciclo, tuttora in essere, dedicato allo scontro drammatico tra l’uomo e la metropoli, tra i corpi abbandonati e gli elementi astratti che alludono a costruzioni e strutture ostili che sorgono all’interno della città.

In queste opere l’artista per rappresentare le sue figure nude e sognanti ha ritrovato la sua qualità disegnativa degli esordi trattata però con un’estrema raffinatezza del tratto e delle ombreggiature che volutamente stride con le masse scure della città che incombe come una morsa distruttiva.

La città trasfigurata e alienante di Marpicati segue l’evoluzione della sua pittura depurata e freddata con un raffinato uso tecnico di smalti spray e matite-conté grazie al quale il pittore raggela il segno che traccia le sue composizioni rendendolo ancora più acuminato e incisivo nei complessi meccanici neri che si stringono intorno ai corpi e che talvolta eliminano addirittura le presenze umane nella loro solitudine vittoriosa e desolata.

Marpicati crea dunque una sorta di parafrasi del paesaggio urbano, visto come un luogo inospite e avverso all’uomo, attraverso un’indecifrabile struttura astratta composta attraverso congegni e complessi enigmatici, aprendosi talvolta fino a un orizzonte dove si stagliano delle misteriose figurine umane che aumentano il senso arcano e spiazzante di questi dipinti.

Quest’atmosfera di inquietudine e di allucinata contraddizione è aumentata dunque dal contrasto tra la stesura piatta, astraente e bidimensionale delle architetture e dei congegni e la vibrante definizione pittorica dei corpi giovani maschili e femminili, addolciti e resi ancoro più sensuali dalla levità delle ombre trasparenti e quasi leonardesche che modellano lo sfumato delle loro anatomie ammorbidite dall’abbandono e dal sonno.

Grazie a questa soluzione emblematica Marpicati raggiunge un misterioso stato di sospensione, a metà tra minaccia e speranza, tra ineluttabilità e rinascita, un’intersezione che si esalta in una visionarietà volutamente contraddittoria che non lascia comprendere quale sia il sogno e quale la realtà, se le figure stiano sognando questo mondo ostile o se siano l’ultima propaggine di una forma di vita destinata a scomparire nell’abbraccio avvolgente e inesorabile delle macchine.

In questo senso, forse il labirinto è il simbolo che può riassumere allusivamente questa ricerca, un luogo caro a Nietzsche, a de Chirico e ai surrealisti, dove il sonno delle figure può essere quello denso di speranze di Arianna abbandonata dopo avere aiutato Teseo a uccidere il Minotauro e a salvarsi dagli inganni dei meandri di Dedalo.

Se questo è il filo corretto per attraversare la pittura di Iros Marpicati, la speranza forse non è perduta e l’attesa di quel sonno può essere ancora riscattata dall’incontro con Dioniso, metaforica scintilla vitale di luce allo stesso tempo terreno e trascendente che scioglie l’umanità dal giogo opprimente e distruttivo delle macchine e che apre le strade del labirinto alle figure che si stagliano all’orizzonte nella luce di una nuova liberazione.

FEBBRAIO 2012

CHIARA GATTI, Iros Marpicati – Metropolis – In bilico sulla città 

Immaginate la scena. Nella città che pulsa di vita e di lavoro, fra grattacieli che svettano come cattedrali gotiche e fabbriche dai ritmi folli, si muovono colonne nere di uomini sottili, eserciti in marcia su lunghe sopraelevate, sospese nel nulla e immerse nei vapori e nel calore della metropoli. Inevitabilmente il ricordo corre alle sequenze della leggendaria pellicola di Fritz Lang, Metropolis, capolavoro del muto anni Venti, che celebrava il mito e i pericoli della città del futuro, dinamica e insonne, retaggio di una poetica futurista proiettata nel 2026, con i suoi panorami avveniristici, dominati da pareti di cemento potenti e minacciose come un Moloch pronto a sbranare i suoi fragili adepti.

Forse non c’è tutta questa inquietudine e una buona dose di tragica retorica, tipica del cinema espressionista dell’epoca, negli spaccati urbani di Iros Marpicati; ma il senso di vertigine, l’affacciarsi inerme dell’uomo minuto e fragile su canyon di architetture più simili a macchine monumentali zeppe di ingranaggi, avvicina le profondità di campo del film-gioiello di Lang alle inquadrature in controluce del maestro bresciano e ai suoi tagli febbrili su muraglioni di metallo o calcestruzzo, torri scure dai profili aguzzi e la mole severa. Scenografie così liriche da evocare persino le musiche che Gottfried Huppertz studiò a suo tempo per l’amico regista austriaco e che, nel caso di Marpicati, sembrano salire lentamente dal basso, da un golfo mistico invisibile, nascosto ai piedi dei suoi palazzi meccanici, e inondare la scena in un crescendo orchestrale tanto intenso da far venire i brividi. D’emozione e di paura allo stesso tempo. Quel mix perfetto dell’una e dell’altra che, in pieno Romanticismo, si chiamava “sublime” e che Marpicati sembra citare con garbo quando rifila i suoi personaggi piccoli come insetti e li pone al cospetto della macchina e dello skyline della città con il medesimo stupore con cui Friedrich posizionava le sue figure minute davanti alla grandezza del creato, sotto cieli immensi e pesanti come tappeti d’asfalto.

Una stretta al cuore è la reazione comprensibile di fronte a quello che Burke, nel suo trattato sul sublime, definì «l’orrendo che affascina». Che attrae e terrorizza contemporaneamente. Qualcosa di molto simile a ciò che rappresentò, dopo tanta tanta natura ottocentesca, la mitica “città che sale” agli occhi di Boccioni e i suoi colleghi, e che, a un secolo esatto di distanza, per Marpicati, continua a salire con uguale fascino e spavento.

Non stupisce infatti che, braccato da una specie di agghiacciante rivelazione sul destino dell’uomo nell’era meccanica, dopo i primi incoscienti entusiasmi, Boccioni (vera mente teorica del movimento futurista) cominciò a distillare il concetto di finitudine nelle sue riflessioni scritte o dipinte. «Bisogna avere il coraggio di superarsi fino alla morte» scriveva fra le pagine di diario. E, in questa sfida impossibile alla sorte, c’era celato un pezzo intero del suo cuore romantico. Lo stesso che batte ora nei grandi cartoni intelaiati di Marpicati, romantico anche lui, e futurista insieme, quando sogna paesaggi industriali a picco sul vuoto, metropoli verticali dove tuttavia il dramma – di cui molta critica in passato ha parlato, riferendosi forse alla sua iniziale adesione agli umori pesti del realismo esistenziale milanese – è superato, ancora una volta, dalla meraviglia. O meglio, “sublimato”, per tornare allo spirito d’eredità ottocentesca. Ecco perché le sue griglie, le gabbie, i luoghi (apparentemente) ostili, costruiti con sovrapposizioni di piani, ombre maestose illuminate da flash improvvisi di colore, strizzano lo stomaco, ma come un’emozione intensa. Acuta, ma mai drammatica. La Metropolis di Marpicati è, insomma, pericolosa, ma bellissima.

Memore certamente delle Carceri del Piranesi – come ha già ipotizzato Carlo Fabrizio Carli – e dei suoi antri cupi, giochi di volte solenni, pilastri massicci, grate e ponti rocciosi, labirinti di scale e tunnel, inno alla città eterna, spettacolare nel suo disfacimento, Marpicati pare proiettare le visioni di questo mondo sotterraneo in un avvenire a sprazzi fantascientifico dove, alla pietra, si sostituisce la lamiera, alle inferiate strangolate dal muschio e i rampicanti, pulegge dentate e alberi-motori alti come basiliche. Templi del lavoro e della fatica di cui però, nelle sue scenografie mozzafiato, non si percepisce la gravità. E qui sta il segreto delle sue immagini sublimi.

Gli uomini di Marpicati, esattamente come il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich, non hanno la schiena spezzata dal dolore e dalla stanchezza. Sono testimoni attoniti, incantanti e intimoriti dal panorama tecnologico che li avvolge, senza schiacciarli. Guardano e non sudano. Partecipano da spettatori al miracolo e ai palpiti tachicardici della città-industria; passeggiano leggeri su piani di gigantesche incudini, fra ruote ciclopiche di torni automatici, sotto punte affilate di cucitrici che, tuttavia, non c’è alcun rischio gli franino addosso.

Un paesaggio inospitale, forse, ma non fatale. Al contrario, affascinante, nell’accezione che ne diede Burke. E che, per Marpicati, maestro del segno dalla doppia anima lirica e costruttivista, diventa il pretesto per un’indagine formale, per uno studio della composizione che non lascia nulla al caso, in cui ogni peso è calcolato per tenere in equilibrio montagne di attrezzi che, pur essendo ritagliati di profilo, nella sua inedita tecnica della sagoma, ci appaiono spesse, plastiche e tridimensionali come solidi nello spazio. Merito del suo sesto senso per la profondità, acquisito negli anni della formazione, quando schiaffeggiava la tela a forza di zampate nere per sbalzare corpi nella luce e torsi di gelsi divelti nella pianura infinita. Ma merito altresì di quelle stesse figure minime, posizionate come ultimi, determinanti tasselli nei suoi fondali piatti, trasformati, proprio dalla loro presenza, in prospettive articolate che risucchiano lo sguardo verso una quarta (concettuale) dimensione.

Capirete come, in questo crescendo di sensazioni, nel silenzio più totale, venga istintivo immaginarsi un accompagnamento sinfonico, il prorompere di un’orchestra sulla scena, componente naturale, anche se inconscia, nella pittura di un autore che, non a caso, ama la musica. E questa, infatti, gli risuona dentro, quando innalza grattacieli al ritmo dei preludi circolari di Wagner, che salgono, precipitano di colpo e risalgono ancora. Cuore, batticuore romantico. Marpicati, come il padre nobile di Tristano, affronta il suo racconto per immagini, forte di un’ispirazione mitica e nostalgica insieme, che tocca tutti i moti e le corde dell’esistere umano. «Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!» esclamava Tristano invocando l’oscurità come rifugio sicuro per il suo amore proibito.

Già, la notte. Per Marpicati è altrettanto protagonista. Nei suoi scorci metropolitani, quanto nelle inquadrature strette che, a partire dagli anni Novanta, hanno mostrato corpi assopiti di giovani dalle carni algide immersi fra le stesse gole di ferro su cui l’obiettivo della sua pittura ha in seguito allargato il campo di ripresa. «Buona notte, dolce principe» verrebbe voglia di sussurrare a queste creature, quasi ultraterrene. E la sensazione, di fronte al loro riposo silenzioso, è nuovamente una sensazione di pace e sospensione. Non grida, Marpicati, al disastro di un rapporto mancato fra l’uomo e la città. Non stride il contrasto fra la pelle e il cemento, le membra e le macchine. Come nelle immagini più recenti, dove le sue figure fragili osservano ma non scappano, nei piani-sequenza ravvicinati, che zoomano su sogni e sospiri, nei disegni impeccabili a pastello Conté (notoriamente duro come la pietra, ma che lui spalma come fosse di burro!), gli uomini dormono sonni profondi all’ombra di pareti pietrose e ordigni meccanici perpetuamente in movimento. Nessun timore. Al contrario, si lasciano cullare dai battiti del lavoro e dell’industria. Il cuore dell’uomo e del congegno pulsano all’unisono, benché l’eterno quesito di Boccioni, sul destino del singolo dinnanzi alla città che inghiotte, aleggia pure sullo sfondo della riflessione di Marpicati. E, alla domanda, se sia possibile una vita comune, l’artista potrebbe ricorrere a una frase leggendaria proprio di Metropolis: «Tra la mente che crea e le mani che costruiscono ci deve essere qualcosa. È il cuore che deve unire le due cose».

Senza cuore, infatti, le sue fantasie urbanistiche sarebbero splendidi esercizi formali, luoghi astratti, composizioni perfettamente bilanciate, ma asettiche. Il battito, nel suo caso, fa la differenza. Lo si percepisce lieve, uscire dai corpi sottili delle silhouette piccine. Lo si sente palpitare più forte nel petto nudo dei dormienti, così eterei da rappresentare la risposta, in pittura, alla Pisana di Martini. E lo si sente, ancora, crescere nell’aria, aumentare il timbro, farsi sempre più intenso, musicale e armonico negli scenari aperti sulle linee dei palazzi a contrasto con il cielo. Con un lento movimento di macchina, Marpicati inquadra luci nella notte, cime di grattacieli, archi di ponti, pinnacoli, gasometri e tralicci, mentre la musica sale nelle orecchie e dilaga per le strade delle sue città metalliche, come nell’indimenticabile attacco di Gershwin sui primi fotogrammi del Manhattan di Woody Allen.

FEBBRAIO 2013

CHIARA GATTI, Vertigo – In bilico sulla città 

Dalla letteratura tardo-romantica a quella di fantascienza, passando per il futurismo e la stagione surrealista, decine di autori hanno celebrato l’orrore sublime della città verticale. Basti pensare ai dirupi de La ville charnelle, l’urbe carnale di Filippo Tommaso Marinetti; o agli scorci angosciosi di Manhattan Transfer, metropoli vorace di John Dos Passos. Sulla carta (da stampa), incisori come Martin Lewis o Rockwell Kent hanno immortalato le altezze della “greater New York”, la grande New York, vista dal Brooklyn Bridge o dall’alto del Woolworth Building. Al cinema, invece, le inquadrature storiche degli anni Quaranta hanno lasciato un segno nel tempo, dalla Gotham City batmaniana, avanti fino alle visioni peste e abissali di Ridley Scott o Luc Besson.

C’è un bel secolo di storia che ruota intorno alla cosiddetta “città panico”, la città che sale, germina e svetta in un’arrampicata libera e pericolosa. La stessa che Iros Marpicati ha costruito, da sempre, tassello su tassello, ingranaggio sopra ingranaggio, come teatro delle sue odissee contemporanee, ugualmente eredi dei paesaggi robotici di Asimov o degli alveari di Orwell. E lo ha fatto raccogliendo con garbo l’eredità di tutta questa letteratura del grattacielo, dello skyscraper, dell’acciaio e del precipizio, traghettandola nel linguaggio della pittura. Affidando, cioè, ad ampie campiture di toni saturi e a geometrie monumentali l’effetto scenografico dei lunghi piani sequenza tipici delle pellicole espressioniste, e consegnando poi alle figurette esili dei suoi uomini, sperduti al cospetto del nuovo mondo titanico, il ruolo di protagonisti di una trama narrativa lineare. Che non si esaurisce tuttavia in un’unica ripresa, in un’opera soltanto, ma si dipana, immagine dopo immagine, come in un racconto corale. Un “ciclo”, lo avrebbe definito proprio Isaac Asimov che, non a caso, consegnò alla leggenda le antologie “dei robot”, “dell’impero”, “della fondazione”.

Per Marpicati, pensando ai soggetti ricorrenti, ai grandi temi che fanno da sfondo alla sua ricerca, si potrebbero distinguere cicli altrettanto epici. Quello “delle macchine”, per esempio, dedicato agli spaccati urbani, a edifici simili a colossi di metallo e calcestruzzo, grevi come incudini sul destino del singolo. O il ciclo “dei dormienti”, popolato di corpi assopiti ai margini della civiltà tecnologica, ritratti in uno stato di semi-veglia, prossimo all’allucinazione: uomini veggenti (forse), capaci di leggere nel futuro o vivere solo con la forza del pensiero. E, ancora, il ciclo “della rovina”, laddove la vicenda sfocia nel dramma e gli esseri viventi, sporti sul baratro, percepiscono il peso della propria fragilità, tanto da spalancare improvvisamente gli occhi e tuffarsi nel vuoto, con algida rassegnazione.

È il volo dei consapevoli, di coloro che sanno, non accettano, reagiscono. Spiriti audaci che Iros Marpicati ha più solennemente definito “i suicidi”, senza sfiorare tuttavia il sentimento della tragedia, ma sublimando la scena del salto in un’ebbrezza eroica, complice l’uso inedito (per le sue corde bi-cromatiche) di una pittura sfumata, fatta di orizzonti tempestosi, da maestro romantico. Qui, la città panico, ricca di mistero, ossessioni e acrofobia, ha il profilo aguzzo di un palazzo in costruzione proiettato in primo piano, cantiere abbandonato e aperto sullo skyline della metropoli. Le ombre cupe delle solette in cemento armato diventano trampolini per uomini che non hanno paura di cadere, ma ansia di infinito e fame d’aria. Impavidi s’affacciano sulla scarpata, mentre un brivido gli corre lungo la schiena. «Qui devo essere nata e qui devo essere morta» diceva la splendida Madeleine nel Vertigo di Hitchcock, sospesa in bilico sulla cima del campanile, nella missione spagnola di San Juan Batista. La vertigine era per lei, come per gli uomini soli di Marpicati, uno stato di grazia, un piacere conturbante, l’antidoto all’apatia, all’acquiescenza. E Marpicati, infatti, è bravissimo nel muoversi sul set della pittura con occhi da regista. L’effetto “vertigine” raggiunto da Hitchcock con una combinazione perfetta di carrello indietro e zoom avanti, è conquistato in pittura dai volumi spaziali, giochi di luci e tenebre fra gli interstizi delle murature, scorci profondi, prospettiva aerea, linee di fuga dei piani, che s’inabissano fra le nuvole. E là in alto, sopra il cielo, a picco sul mondo, gli spiriti liberi (o liberati) spingono il piede sull’orlo dell’esistenza. In un istante di immobilità, si concentra la tensione narrativa. Il fermo immagine sembra evocare, ancora una volta, la sequenza dell’incubo e il ritmo ansiogeno del capolavoro firmato dal principe del thriller, con la sua musica memorabile di Herrmann.

Incerto se superare la soglia tra sogno e realtà, lo sguardo dell’artista si arresta giusto un attimo primo dell’evento, mentre la ripresa abbraccia la linea del tramonto. Il tempo è interrotto, l’azione pure. Fiato corto e stomaco in gola, lo spettatore è trascinato dentro il quadro e soffre anche lui le pene dell’altitudine; scosso dall’eccitazione e, insieme, dal sacro orrore del vuoto, sperimenta sulla propria pelle il senso acuto della vertigine. Potere della pittura. Che in un solo fotogramma raddensa l’intero evolversi di una trama. E che Marpicati dirige con sapienza tecnica, quando alterna a vaste aree di colori compatti (i neri, i blu oltremare…), le velature luminose nel suo paradiso dei suicidi, panorami celesti incupiti dal passaggio di una nube carica di pioggia, che preannuncia la tempesta, il dramma, la caduta. «E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia» sussurrava il robot morente di Blade Runner, anche lui in bilico sulle alture di una città verticale.

Con grande poesia, Marpicati dipinge la morte come un gesto di coraggio. Un balzo nel nulla, giù lungo burroni di cemento, fino alle viscere della terra. Un balzo salvifico, che sgomenta e attrae. Terribilmente attrae! Ristoro da una vita labile e conquista di uno spazio, di una vetta, di una dignità (finalmente) superiore alle leggi di un mondo meccanico.

FEBBRAIO 2013

LUCIANO CAPRILE, Iros Marpicati e il “Paesaggio inospite”, icona emblematica del nostro tempo

Lo stato d’animo da racchiudersi in una determinata immagine si riconosce in una allegoria che appartiene alla sfera psichica di ciascuno, è il risultato di un paesaggio interiore che accompagna e modifica modificandosi i passi dell’esistenza. In particolare l’individuo, sollecitato da continui mutamenti emozionali, magari procurati dall’alienazione tecnologica, è soggetto a piccoli o grandi traumi che ne minano l’equilibrio percettivo.

Iros Marpicoti cerca di interpretare questa crisi intima e relazionale che coinvolge l’umanità del nostro tempo attraverso opere di chirurgica analisi descrittiva grazie alla modulata concertazione di rappresentazioni che entrano in contrastante rapporto con l’osservatore. Egli intitola causticamente Paesaggio inospite la sequenza di lavori dedicati all’argomento negli ultimi anni ma che sono l’estrema espressione di una ricerca perseguita con puntuale perseveranza da alcuni lustri. In tali occasioni l’uomo, quando compare, viene indicato come la vittima sacrificale della “struttura” che egli stesso ha ideato. In tutto ciò assume una particolare rilevanza non solo il tema trattato ma soprattutto l’approccio compositivo e tecnico con cui lo stesso tema viene affrontato. Ovvero Marpicati pone al servizio della causa una perizia che in un altro contesto correrebbe il rischio di scivolare nella leziosità descrittiva di un corpo o nella schematica elaborazione architettonica di alcune formulazioni geometriche. Invece il freddo e stridente contrasto degli elementi chiamati in causa (complice il netto, algido taglio delle ombre e delle luci) crea un disagio visivo non compiutamente annullato dalla seducente armonia dell’insieme che descrive efficacemente tale situazione.

Il suo reiterato Paesaggio inospite occupa e seziona lo spazio con netti profili o con segmentate forme che proiettano sul fondo un’inquietante presenza di elementi industriali in minaccioso bilico o in aggressiva espansione, tali da rendere estremamente problematico ogni presenza umana. Infatti solo alcuni minuscoli individui riescono a inquinare, come trascurabile corollario, il perentorio e implacabile ritmo di un meccanismo di cui non si riesce a misurare appieno l’opprimente, oscuro divenire. Ma si tratta di entità quasi impercettibili (rare formiche immerse in un contesto di totale predominanza artificiale) che non riescono a impedire o a limitare l’imperversante schiacciamento psicologico e fisico attuato da simili congegni provvisti di moduli acuminati. Anzi, ne accentuano l’ossessiva incombenza. Offrono palesemente l’allegoria della macchina che si impadronisce dell’esistenza del suo creatore soverchiandone la volontà e il pensiero. Il passo successivo sarà determinato da quella sparizione suggerita o anticipata dall’ormai inutile o marginale ruolo della persona in un simile contesto ambientale.

Quando invece la figura umana entra in scena come protagonista centrale di un dittico o di un trittico lo fa con un senso di dormiente e sofferta penitenza, proponendosi quale strumento di discontinuità traumatica e compositiva. Le membra distillate in armonica e plastica evidenza entrano infatti in dissonante conflitto strutturale, plastico ed emozionale col resto della rappresentazione. Costituiscono l’incontro onirico con l’incubo, paiono l’estrema resa al sacrificio, a quelle trafitture rivolte nel loro cinico percorso a un moderno, laico Sebastiano che offre il proprio corpo al rito dell’espiazione. Il panorama non consente una via di salvezza; il pensiero, al pari delle membra, è schiacciato dalle cose che il medesimo pensiero ha architettato e che ora gli si rivoltano contro alla stregua di un boomerang. Così l’uomo sembra destinato a dover ricercare il proprio destino nella logica perversa di una catastrofe innanzitutto mentale per aver tentato la via dell’onnipotenza.

Iros Marpicati rivisita il tema della conseguente punizione attraverso un percorso di annullamento. Infatti le prove più recenti esaltano sempre di più lo rigorosa determinazione di uno spazio che scandisce ormai lo vita o lo sua parvenza o la sua traduzione in una formula oppressivamente geometrica. Il disegno di queste strutture ritagliate nel nero contro un fondale paiono l’immensa ombra generata dall’uomo come specchio di sé e della sua anima perduta. Tali emissioni della psiche si inseriscono in un contesto caratterizzato da ampie campiture di giallo, di rosso, di azzurro, di verde ritagliate nel rigore costruttivo: così le sagome di simili congegni di inquisizione visiva e psicologica conquistano un’armonia formale che consente a loro di prevaricare ogni altra presenza nello spazio. L’individuo, ridotto ai margini del racconto, è avviato sulla via della sparizione.

Iros Marpicati si comporta nei suoi dipinti con la fredda determinazione dello scienziato che declina sulla lavagna le formule della sua ricerca e della sua scoperta; pur tuttavia non dimentica di essere egli stesso parte in causa della denuncia e pertanto si procura e inserisce il lenimento di una tonalità di conforto. Infine questi suoi personaggi lillipuziani sembrano dichiarare con la loro marginale ma insistita presenza il seme di qualcosa (un pensiero, un respiro, un sogno) non ancora definitivamente tramontato.

Se con Duchamp e con Picabia la struttura meccanica aveva suscitato nella logica e nello spirito “dada” (dove predominava l’antirazionalismo e il caso) un fascino trainante, trasgressivo e rivoluzionario, ora è proprio la soffocante incombenza del potere tecnologico a generare quella crisi che l’artista bresciano esibisce in tutta lo sua imponente e tragica evidenza. E ciò vviene attraverso opere che nella loro scansione formale assumono il ruolo ineluttabile di una radiografia della contemporaneità da proiettare in un futuro di progressiva alienazione. Noi tutti ci troviamo idealmente proiettati in un simile clima da “day after”. A cui va associata una sinistra seduzione contemplativa che alimenta di ulteriori valori percettivi l’intera opera da leggersi dunque come un destino in attesa del suo ineluttabile compimento. Infine se la rappresentazione della figura umana in alcuni lavori ha la funzione di nostalgica memoria di un’identità perduta, la sua scomparsa o lo sua presenza appena percettibile in altri dipinti non consente alternative concettuali. Così il “paesaggio inospite”, magistralmente declinato da Iros Marpicati, diventa la lettura propedeutica e la proiezione (o la punizione) di un presagio.

FEBBRAIO 2013

SILVIA AGLIOTTI, Un silenzio custodedi mille cicatrici

In un tempo che non lascia vie d’uscita, addormentarsi in un sonno profondo e senza sogni pare essere l’alternativa

dello scenario esistenziale che dipinge l’artista Iros Marpicati, il cui stile inconfondibile è frutto di un lungo corso vitale e professionale. I minutissimi omini che compaiono tra le prospettive taglienti di metropoli gigantesche non hanno parola nè nome, annientati in misura tra congegni eccellenti di ingegneria edile, architetture perfettamente funzionanti quanto mostruose nella loro algida concezione. Grandi corpi umani coricati in abbandoni abissali fanno da contraltare alla condizione di inferiorità e quasi ci danno l’immagine dilatata della condizione dell’uomo in un mondo così concepito. Se è vero che “il sonno della ragione genera mostri”, qui l’abbandono occulto di ogni attività vitale pare l’unica possibilità e difesa. L’eros che un tempo dava spinta a questi corpi risulta congelato, delicate sfumature ne ammorbidiscono i profili creando rinascimentali ombre. Né suoni né rumori in queste opere. Tutto tace, il silenzio prevale, risulta fatale, come le suture sommarie di ferite ancestrali che si leggono sui corpi degli umani. Tagli al vivo, operazioni, interventi che l’uomo ha sopportato e sopporta. Tempo di distruzioni e ricostruzioni, sfaceli e provvisorie cuciture. Ferite insanabili per la verità, che solo un Requiem potrebbe onorare. Un Requiem che secondo la tradizione abbrevia la permanenza di espiazione delle anime dal Purgatorio verso il Paradiso, una musica custode di mille cicatrici, imago pietatis che ben si intona con il senso kantiano del sublime svelato dalla contemplazione delle opere di Marpicati, un artista che è anche un profetico esteta, cantando senza voce il mistero insondabile della condizione esistenziale umana.

MARZO 2014

FAUSTO LORENZI, Iros Marpicati 

Iros Marpicati è un artista di salda strumentazione anche culturale. S’affermò in Lombardia con notevole peso alle sogli degli anni Sessanta, con temi di rivolta umana e civile (al centro dei lavori selezionati per questa mostra), ma era poi rimasto per decenni assente dalla scena espositiva e ricomparso in città solo nel 1996 all’Aab, e subito riaccolto a Milano con grande apprezzamento da critici come Mario De Micheli, Rossana Bossaglia, Luciano Caramel, Elena Pontiggia. Aveva cominciato, lui che veniva dalla Bassa, accompagnando i contadini in città come a una mattanza: il disagio, lo sradicamento, l’alienazione. La sua ultima mostra prima del lungo silenzio fu dedicata al disastro immane della diga del Vajont (1963), di cui qui sono presentati disegni ispiratori anche d’una cartella d’incisioni: era tutta concentrata con forza epica sul dolore delle popolazioni travolte dall’acqua; poi solo cartelle di litografie, serigrafie, presenze sporadiche e occasionali. Già allora emergeva un lirismo amaro, da quel giudizio aspro e urticante sulla brutalità del reale, dal suo non concedere scampo all’inerzia, alla solitudine e al dolore. Anche la natura era sentita come consolazione agra, di immobilità schiacciante. Quella stessa disposizione si è fatta poi deriva in un’inghiottente dolcezza, quando alla fine degli anni ’90 Marpicati è ritornato sulla scena espositiva, con la figura di un giovane ignudo, innocente, di perlacea e languida bellezza sensuale, però avvinto da una spossatezza mortale, giacente come un ignaro capro espiatorio in un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente, minacciato da paesaggi urbani e industriali acuminati e aguzzi, in grandi cartoni intelaiati e stratificati, montati a polittico; e con paesaggi di memoria macchinista, di congegni metallici, assillanti e aggressivi, ridotti a pure forme primarie frantumate in una spazialità nevrotica e assurda, di fissità glaciale, in cui si perdono minuscole figure umane. L’artista è passato dalla denuncia alla meditazione esistenziale. L’unità di fondo di ogni opera è cercata in un’algida tessitura di assonanze-dissonanze, entro un’associazione di spazialità nevrotica e assurda, come cercasse una regola di montaggio allo sperdimento di sé e della vita. La struttura è custode dello sguardo desiderante, d’un sottile delirio, coi paesaggi a frantumarsi nella memoria come blocchi di ghiaccio in un mare artico nella stagione del disgelo. Paesaggi metallici, assillanti, d’una città torturatrice o d’una periferia del mondo, d’una condizione malata del vivere, ma che s’aprono su squarci di smemoratezza nell’infinita vanità del tutto. Molte visioni di Marpicati sono intitolate con riferimenti a opere di compositori dell’Otto-Novecento: si può forse meglio intendere la potenza severa della sua ricerca degli ultimi decenni, dicendo che nasce dal contrasto tra sonorità percussive e martellanti, di violento scatenamento di materia “sonora” (pur scarnificata, prosciugata, ridotta all’essenza di pure geometrie) e un terso e doloroso lirismo. Uno scontro tra risonanze dure e “barbariche” e glaciali fissità, estatiche e visionarie. Marpicati è innamorato di cinema e teatro musicale, e la sua potente suggestione è proprio nella scenografia di uno sperdimento visionario, in un’atmosfera commossa davanti all’irreparabile.

2014

GIORGIO VULCANO, Giorgio Vulcano: Iros Marpicati 

“Le molte crisi che scuotono il mondo odierno – dello Stato, della famiglia, dell’economia, della cultura, ecc. – costituiscono soltanto molteplici aspetti di un’unica crisi fondamentale, che ha come specifico campo d’azione l’uomo stesso. In altri termini, queste crisi hanno la loro radice nei problemi più profondi dell’anima, e da qui si estendono a tutti gli aspetti della personalità dell’uomo contemporaneo e a tutte le sue attività.”
Plinio Corrèa de Oliveira, Rivoluzione e contro-rivoluzione, 1959

È un periodo, il nostro, di convulsa accelerazione cui fa riscontro la penuria di una autentica novità, l’assenza di valori. Agli scapigliati nichilismi, agli assurdi manifesti, fanno eco le miopi ripetizioni, le standardizzazioni parassitarie, le robotizzazioni massificanti. L’uomo, ancora una volta, sente di trovarsi davanti ad un bivio: l’alternativa radicale tra “l’essere di più” e il “non essere mai più”. Tornato con aria soddisfatta dai “funerali” dell’arte, della filosofia, della religione, è in bilico tra la celebrazione delle proprie esequie e le doglie di un parto nuovo. La diagnosi del malessere è resa più acuta dalle involuzioni del pensiero postmoderno la cui complessità fa della crisi dei nostri giorni un travaglio strutturale, esistenziale, totalizzante.

In questo campo d’indagine si può inserire la ricerca e la sperimentazione artistica di Iros Marpicati. A contatto con le sue opere si ha l’impressione di immergersi in un racconto del presente; egli offre un ritratto drammatico della nostra società che minaccia l’integrità dell’uomo, ne racconta il disagio introspettivo, indagando sulle più intime emozioni, sul suo inconscio, tracciandone debolezze, istinti ed impulsi, attraverso rappresentazioni talvolta figurative, talvolta astratte, caratterizzate da una grande forza gestuale. Nelle opere realizzate tra il 1959 e 1961, Marpicati professa una pittura di denuncia coerente, senza scendere a compromessi, esternando con la sua sensibilità il dramma esistenziale dell’essere umano, combattuto tra benessere e coscienza; egli ferma sulla tela, prediligendo toni scuri (forse anche questi simboli di una visione negativa dell’esistenza), immagini di una famiglia che, pur abbrutita dal duro lavoro, conserva una sorta di affetto primitivo e viscerale che la unisce. Ritrae anche un’anziana donna che mangia in solitudine, incarnando la fame atavica e la primordiale drammatica esigenza di nutrimento: ciò riporta alla memoria la miseria e la vita di stenti che Van Gogh ha immortalato nel dipinto I Mangiatori di patate del 1885.

L’artista descrive un profondo malessere della compagine umana dell’età postindustriale, nel rapporto tra individuo e società; egli analizza la realtà sia in un’ottica macrosociologica, come un’entità generale che sovrasta l’individuo, sia in una visione microsociologica, che traccia le relazioni tra l’individuo e ambiente, il cui prodotto ha per esito la costruzione della società, non sempre, né per tutti gratificante.

Nelle opere realizzate tra il 1996 e il 2008 l’artista dipinge contesti astratti, dalle sembianze industriali, ma anche giovani visi e corpi inermi, quasi impotenti di fronte al dolore procurato dalla stessa società: essi giacciono in un sonno forse di morte o di fuga dalla crudele realtà, eppure affascinanti nella loro innocente e indifesa nudità efebica.

Anche i dipinti astratti più recenti evocano taglienti lame, che l’uomo ha usato da sempre e di cui è stato vittima, in una sorta di amore e odio. Come aveva già interpretato Eugenio Montale nel 1925, si avverte “con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. L’essere umano, che con l’ingegno e la tecnica ha creato la “società delle macchine”, ne diventa ora vittima e vede monopolizzato il suo tempo, fagocitata la sua vita, dispersi i suoi valori e i suoi affetti.

FEBBRAIO 2015

GUIDO FOLCO, Il ritorno all’ordine di Iros Marpicati

Il Museo MIIT di Torino, nella sua vocazione internazionale particolarmente attenta alla valorizzazione della storia artistica italiana moderna e contemporanea, è orgoglioso di presentare la mostra personale di un grande interprete del nostro tempo: Iros Marpicati. Le sue opere rappresentano un punto di contatto tra i canoni estetici di Novecento Italiano e le più avanzate ricerche della modernità, dal rigore compositivo, alla monumentalità dell’impostazione stilistica e formale, dalla meditata e intima rappresentazione dell’Uomo, alla metafisica di un’idea pittorica che si fa forma onirica, immaginata. L’artista interpreta l’essenza stessa della nostra cultura, quella classicità idealizzata che fu dei grandi maestri del passato, da Giotto a Michelangelo, da Leonardo a Raffaello, ma lo fa con la profonda sensibilità di uno sguardo nuovo, tipico della nostra epoca. Iros Marpicati autore classico, quindi? Sicuramente sì, almeno in parte, intendendo con questo termine la sintesi di un’idea di modernità che ha tracciato un solco profondo nella storia dell’ultimo secolo. Nei primi anni del Novecento la società inizia a confrontarsi profondamente con l’essenza dell’Uomo, con la sua psiche e le sue ansie vitali, interpretando così il dramma di una umanità sofferente, straziata dalle guerre mondiali, inesorabilmente condannata alla solitudine esistenziale. Quello stesso sentimento che traspare dai lavori di Iros Marpicati, in cui l’uomo diventa presenza inevitabile, ma al contempo soffocata dalla fredda, rigorosa, inanimata contemporaneità, dalle architetture ideali, cromaticamente immerse nelle nere notti della disperazione, in perenne lotta col l’abbacinante luce della speranza. Il cosiddetto Ritorno all’Ordine, proclamato e voluto dal Ventennio, maturato da maestri quali Malerba, Oppi, Marussig, Dudreville, dallo stesso Achille Funi, con cui Marpicati studia all’Accademia Carrara di Bergamo, si ritrova in queste tele dell’artista, declinato però con modernità di linguaggio, in un continuo dialogo tra le istanze della stagione razionalista e neoclassica del primo Novecento e il desiderio di raccontare l’Uomo, tipico della stagione del rinnovamento. Nel corso del ventennio, l’Uomo diventa il centro della poetica e della ricerca degli artisti, quasi un’epifanìa delle avanguardie post belliche, prepotentemente provenienti dagli Stati Uniti, così diverse nel loro linguaggio espressionista, eppure tanto vicine nella loro epidermica umanizzazione dell’arte. Uomo inteso come eroe mitologico, semi-divinità scevra della sua intrinseca fragilità, osservato però anche alla luce delle nuove esperienze contemporanee. In Marpicati, queste si concretizzano in una visione dell’Essere uguale e contraria, rispetto alla monumentalità del passato. Nei suoi dipinti è l’architettura a prevalere sull’Uomo, sono i nuovi templi della modernità a renderlo quasi invisibile, anonimo, ormai perduto nel ricordo lontano della sua grandezza e divinità. Iros Marpicati incarna quindi perfettamente quella che Giorgio De Chirico definiva la ‘grammatica del linguaggio pittorico’, vale a dire l’interpretazione della figura umana, simbolo delle debolezze della società e dell’anima del mondo. Nelle sue opere, l’artista ci suggerisce un’idea moderna e reale della vita, abitando ogni dipinto con una sospesa, straniante e drammatica attesa, divenendo così ‘ponte’ ideale tra l’eterno linguaggio del mito e la nuova utopia di salvezza.

FEBBRAIO 2015

LUCA BEATRICE, La costruzione della grandezza umana

Iros Marpicati è figlio di una generazione influente. Appartiene alla storica classe d’artisti che ha inciso le iniziali della ‘cultura visiva’ del capoluogo meneghino, nella Milano degli anni ’30, appena reduce dal fascismo e dalla prima guerra mondiale e non ancora cosciente di un conflitto a venire. Quella generazione, eterogenea e variopinta, ha disegnato panorami, prodotto immaginari e costruito nuovi percorsi sulle ceneri ancora calde dell’Informale europeo e dai raccordi, concettuali e visivi, con le sue evoluzioni teoriche (tra cui la pittura nucleare, il realismo esistenziale e la scuola dello sguardo). La stagione che ha seguito, e alla quale Marpicati s’inscrive, ha chiamato ad adunata corporazioni e gruppi d’artisti, quando ancora la figura del critico militante non sostituiva l’autogestione dei ‘movimenti’ (e la nomina di ‘curatore’ non compariva nemmeno nei dizionari) a favore di mostre ed espressioni più spontanee di volontà e pulsioni creative, sia collettive che singole. L’arte di quegli anni manifesta la recettività verso un mondo attraversato da un cambiamento e ne riconosce tutta la tensione sperimentale.

Dentro a un paesaggio così vitale, l’arte italiana guarda con entusiasmo all’Europa e all’America; a Milano si producono linee e formazioni accademiche, la strada concettuale di Azimuth da una parte, dall’altra la direzione oggettuale dell’arte cinetica e programmata (Gruppo T e del Cenobio); si assiste alla riconquista del disegno, della forma e della figurazione trasformata e aggiornata nei generi con echi provenienti dalla Pop Art inglese e americana.

Siamo negli anni ’50 quando Iros Marpicati espone per la prima volta alla Galleria Spotorno di Milano. Dal quel 1957, il maestro che oggi conosciamo per i suoi Paesaggi inospiti, ha coltivato una carriera unica nel suo genere, rinnovandosi ogni volta nel linguaggio seppur preservando la lucidità di un pensiero analitico verso la realtà, mai scontato e per nulla derivativo da mode o stili. Le prime opere di Marpicati raccontano di un’umanità introversa tramite un organicismo pre-figurativo, con ritratti di persone e natura, dentro la durezza del bianco e nero e la gestualità dell’olio che si sfuma sulla trama della tela. Di lì a poco, il volto amaro di una società che ha conosciuto la guerra civile e la fame lascia il posto a un più lucido e scientifico sentimento: il dramma e il pathos giovanile si trasformano nell’artista in coscienza e responsabilità intellettuale. Si dichiara ora nei titoli (Incidenti, Paesaggi Composizioni), e nella scelta dei soggetti (ingranaggi e macchine), la storia che accompagnerà tutta la pittura diMarpicati. Già da questi primi esperimenti narrativi l’evidente presenza di realtà e di massa critica dentro le superfici mobili e dinamiche dei quadri, mai eccessivamente formali, stupisce in considerazione del fatto che tutto intorno – la storia a ricordarlo – spingeva verso le entusiaste attese generate dalla prima tecnologia e dalle scoperte scientifiche, con un’evidente fiducia nel progresso e nelle possibilità dell’uomo.

Marpicati parla di quel presente ma con una proiezione tesa al divenire di un futuro appena prossimo: guarda l’uomo e stima la sua integrità eppure riconosce la minaccia del progresso tecnocratico e, in controtendenza rispetto al panorama culturale di quegli anni, adopera un’acuta e sensibile denuncia all’ottimismo dominante che si era infuso a partire già dal movimento futurista. Macchine e ingranaggi sostituiscono gli espedienti di volti e fiori ma sono governate da una più inquietante organicità artificiale; le astrazioni degli anni ’60, con la ripetizione sistematica dei soggetti, ossessiva e permeante, che porta il senso delle macchie di Clyfford Still e la fredda continuità estetica delle tavole numeriche di Franz Kline, sono state espressione dell’inquietudine sperimentale del tempo e costituiscono le sotto tracce formali e concettuali dei Paesaggi inospiti di oggi.

L’artista è di origini bresciane, ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo – sotto la guida di Achille Funi – e lambisce la formazione d’architetto per decidere poi di consacrarsi alla pittura e di trasferirsi a Milano, come altri della sua generazione (tra cui Tullio Pericoli). Fondendo l’interesse per la Figuration Critique di origine francese, per la quale lo stato del corpo è al centro di una pittura allegorica e metafisica, e l’astrattismo di stampo americano, che vede nella pittura una costante possibilità d’interesse e rinnovamento, Marpicati enuncia nei suoi lavori una riflessione intorno al rapporto uomo/ambiente; più dichiarato nei lavori degli anni ’90, o diversamente celato nell’evoluzione stilistica formatasi a partire dagli anni duemila verso la direzione di una pittura piatta e geometrica, ma fortemente contraddittoria, confessa una tangenza perpetrata nell’immaginario architettonico che considera il vuoto un elemento centrale e pieno, può sembrare un ossimoro, dei suoi originalissimi paesaggi.

La relazione con l’architettura, manifestata sia nei temi che nella loro restituzione narrativa, deve in parte alla stessa stagione creativa della Milano degli anni ’50, quella che va da Enzo Mari a Ugo La Pietra fino ai fratelli Joe e Gianni Colombo e si nutre ancora oggi di un compendio di fascinazioni in uso nella grafica e nel design, che garantiscono la freschezza ancora vitale nei dipinti del maestro.

Nelle opere che portano la sigla 2013 e 2014, si avverte il rigore formale e costruttivo di una certa stilizzazione dei manifesti russi dei primi del Novecento già riadoperata nell’ultimo decennio, e ancor prima negli anni ’90, dal mondo della comunicazione e della pubblicità. Si pensi alle copertine di dischi (‘The Man Machine’ del gruppo tedesco dei Kraftwerk, gli scozzesi Franz Ferdinand) e alle espressioni grafiche di festival musicali, culturali e locandine politiche dove il grido del formalismo russo risponde all’esigenza di una comunicazione diretta e immediata richiesta dal consumo visivo dei nostri giorni. La storicità dell’immaginario della propaganda (di El Lissitzky e di Alexander Rodchenko), così asciutto e severo, si mescola alla leggerezza pop e occidentale, in particolare americana, del melting pot praticato dal vocabolario odierno.

E’ nell’ultima serie dell’artista che, ancora più del layout grafico sopra citato, si intravede un certo modernismo architettonico alla Le Corbusier, di profili che suggeriscono forme e ombre in movimento, con cesure e tagli cromatici che incombono e compenetrano sulle geometrie al nero di paesaggi industriali, ingranaggi, macchine, costruzioni.

Il retaggio visivo di altri scenari (dalla grafica alla musica, dall’architettura alla scenografia), trova spazio nella sintesi stilistica di Marpicati che conferma la sua capacità di aderire al presente seppur nella storicizzazione di un percorso nutrito di riferimenti colti della cultura artistica più contemporanea: i profili dell’inglese Gary Hume, la vivacità del segno astratto del maestro americano Terry Winters o le ombre del reale dentro il minimalismo di Ellsworth Kelly. Pur manifestando influenze e tangenze, come d’altra parte qualsiasi artista, il lavoro di Marpicati e’ personale e originale, trovando pochi eguali nell’ambito della pittura astratta italiana.

Confermandosi maestro del segno e del disegno, della figurazione abitata nell’astrattismo, dell’esistenzialismo intellettuale trattenuto da un formalismo mai troppo distaccato e complice con lo spettatore che lo esperisce, Marpicati immerge la presenza umana in un universo visivo inquietante e riflessivo. Non rinuncia al racconto facendo comparire ospiti (o per meglio dire inospiti) minuscoli, sagome lillipuziane di personaggi che camminano lungo le traiettorie vertiginose dei suoi paesaggi apocalittici e futuribili.

L’uso del monocromo, dei soli colori primari (blu, rosso e giallo) e altre volte del verde, restituiti da una pittura à plat e del cloissonisme, data per campiture omogenee di colore (come retini grafici), garantisce alla composizione la costruzione equilibrata di un set quasi cinematografico, come una sequenza di still video sceneggiati nella mente dello spettatore che li osserva.

Paesaggi inospiti sono intuizioni astratte di un ritmo espressivo ripetibile all’infinito, con sensibili variazioni, che diventa riflessione temporale – oltre che spaziale – della dimensione umana e del suo divenire. La scansione ritmica dello spazio della tela, alla ricerca di un ordine strutturale e compositivo (di tensione classica) fa aleggiare in questi quadri una presenza metafisica e quindi trascendentale, per certi versi mistica, dove ricercare l’integrità della grandezza umana nella piccolezza inversamente proporzionale della realtà che lo ospita.

FEBBRAIO 2015

CLAUDIO STRINATI, L’arte protegge

Nel corso della sua carriera artistica Iros Marpicati ha avuto spesso a che fare con eventi e sensazioni gravi e devastanti, il più terribile dei quali fu forse la tragedia del Vajont. Quando il maestro si interessò di quel fatto terribile era già passato attraverso un percorso che si era nutrito di apporti dell’ informale americano e dell’ espressionismo tedesco, “ al limite di un bianconero filmico espressionista”, come annotò felicemente Fausto Lorenzi in un suo intervento critico del 1996. Maestro di profonda moralità e di severa introspezione. Marpicati aveva già alle spalle una produzione cospicua su cui si era appuntata l’ attenzione di critici insigni e di appassionati d’ arte delle più disparate provenienze. Un’ arte, la sua, che sembrava oscillare tra impulsi audaci, tali da essere comparato all’ action painting, e attitudini meditative altrettanto energicamente espresse e talvolta successivamente connesse con spunti provenienti anche dall’ universo della musica, una musica, però, che parla sempre di sdegno, indignazione, tragico contrasto con la decadenza fisica e morale dell’ essere umano e basti ricordare in tal senso gli echi da compositori come Bartok, Prokofiev, Stravinskij e soprattutto Luigi Nono alla cui grande opera Intolleranza Marpicati ha dedicato una eletta riflessione pittorica. Il mondo di Marpicati è stato da subito un mondo dolente e cupo e gli eventi, piccoli e grandi, che si svolgevano intorno a lui sembravano rafforzare sempre più la sua acuta disperazione e il suo bisogno di esprimersi con forza e franchezza. C’ è, in proposito, un curioso parallelismo con la vicenda di Marpicati ed è quello di Alberto Burri, uno dei supremi esponenti dell’ informale italiano, da cui non si può sostenere che Marpicati abbia tratto ispirazione, ma che ha definito alcuni termini della questione pittorica nella seconda metà del Novecento che hanno funzionato da orientatori per alcuni spiriti sensibili e fervidi che sono venuti dopo. Lo spazio lacerato e insieme compatto; le lame che tagliano la superficie; le punte che attraversano il classico equilibrio della distribuzione delle masse e di fattori compositivi: sono altrettanti elementi che Burri cominciò a affrontare e vagliare dall’ immediato secondo dopoguerra e che un artista vero come Marpicati, appartenente però alla generazione successiva, ha come assunto su di sé, sia pure con una impostazione stilistica e una intenzionalità espressiva ben diverse.

A volte, per certi artisti, le chiavi interpretative sono nei titoli delle opere. Per Marpicati questo vale particolarmente. E’ stato notato come soggetti suoi emblematici possano essere addirittura circoscritti nei criteri della rappresentazione di devastazioni totali, di una sorta di deserto che spinge verso il nulla. E’ stato altresì notato come largo spazio della rappresentazione il pittore lo affidi sia alle macchine che torturano sia ai corpi dormienti e estenuati che sembrano ignorare tali presenze allucinanti ma vi sono immerse fino a sfiorarne il contatto che distruggerà quelle estasi e quello stato di compiaciuto “relax” in cui il pittore ama collocarli. Non sembrerebbe, a questo punto, possibile circoscrivere tali raffigurazioni in un’ unica lettura critica che dia conto degli elementi essenziali dell’ ispirazione di Marpicati. Ma proprio a partire da qui nacque la formula critica forse più efficace e che ancora, oggi a distanza di molti anni, è illuminante per l’ arte di questo pittore singolare e rimarchevole. La si deve al suo esegeta più fine e fedele, Mario De Micheli quando, esattamente cinquanta anni fa, affermò come il giovane Marpicati fosse arrivato a una “ espressione allarmante” che caratterizzava tutto il suo lavoro. E’ vero e resta valido ancora oggi.

Allarmante. Sembrebbe qui risiedere la quintessenza di questa arte nitida, nobilmente atteggiata, aristocratica per certi versi, popolare per altri. La pittura di Marpicati, in effetti, era ed è restata negli anni un allarme gettato nel flusso della storia. Un “allarme” che continua a suonare ( soffermandoci per un momento sulla possibile metafora scaturente da tale termine) anche se forse non può ridestare i suoi personaggi che dormono e che, come in una favola antica, ancora attendono il risveglio che li ricollocherà in uno spazio e un tempo felici e intoccati dal dolore e dalla morte. Invece abitano in uno spazio che per lo più Marpicati stesso chiama “inospite”. Non inospitale ma inospite. Quasi a rimarcare la parola “ospite” rivoltata di significato. Quasi che la pittura del maestro dicesse ai suoi personaggi: “vi desidero qui ma non vi voglio”.

L’ allarme è una dimensione dello spirito un po’ particolare. Non è propriamente l’ ansia, non è la paura, non è l’ attesa angosciosa magari decifrabile in senso kafkiano ( e Kafka è stato più volte evocato commentando l’ opera di Marpicati). Ma è uno stato di vigilanza unito a uno stato di distrazione. Chi si allarma o ascolta un allarme che lo sta richiamando, per lo più non sa bene cosa sta veramente succedendo ma teme che stia succedendo qualcosa di grave e forse di irreparabile. O, modificando un poco le parole, di “irriparabile”, di ciò, in altri termini, che non si può riparare.

Come è il mondo di Iros Marpicati? si è chiesto in un notevole studio critico Giorgio Di Genova nel 2005? E risponde: “è una sorta di macchina stritolatrice, con i suoi ingranaggi di irrazionale geometria, costituiti dai suoi muri interni, dagli edifici urbani, dagli spazi industriali”. E’ un insieme , insomma, che non si può riparare, che arriva a noi come massacrato e che possiamo solo contemplare e ricostruire mentalmente. Mette, dunque, in allarme il riguardante e non è detto che sia uno stato d’ animo desiderato da nessuno di noi. Eppure sempre ricordiamo come uno dei compiti specifici dell’ arte sia quello di indurre alla riflessione, a stimolare il pensiero verso orizzonti inattesi e non necessariamente rasserenanti. E si pensa, allora, a quelle opere che Marpicati ha ripetutamente intitolato “ incidente” e si intuisce che dietro a quel titolo ci sia, o perlomeno ci possa essere, una disposizione d’ animo ben precisa e una informazione circostanziata. “Incidente” è quello che capita, ad esempio, in automobile e che provoca disastri più o meno gravi. Provoca comunque rotture. Ma “incidente” è un participio passato del verbo incidere e in tal senso significa, dunque, ciò che incide. Può essere un’ idea, un principio, un’ opera d’ arte, tanto acuta e potente da “incidere” profondamente sul nostro animo determinandone convinzioni, desideri, aspirazioni.

Non è il singolo quadro di Marpicati che rappresenta un incidente a interessare compiutamente l’ indagine critica sul suo lavoro. E’ l’ opera complessiva di Marpicati che è “incidente” sulla coscienza dell’ osservatore. Incide nel profondo e condiziona il nostro modo di guardare tra spigolosità terribili e dolcezze altrettanto penetranti nel nostro essere.

E’, Marpicati, un artista dialettico che sa tenere in allarme i suoi osservatori, non per perseguitarli ma per richiamarli a una sorta di dovere estetico che è quello di connettersi costantemente con la dimensione artistica onde non perdere i più intimi moti del cuore e dell’ immaginazione, che competono a ogni essere umano. Segna le superfici con discrezione e precisione ma rappresenta tutto ciò che vede con le stigmate di una sorta di amore universale, per cui il suo tema supremo è proprio quello dell’ armonia, della pacificazione delle forme, dell’ immobilizzazione dei contrasti, sia latenti sia in essere.

Ne promana l’ immagine di un dolente umanista che considera pressochè sacrale il suo lavoro di pittore grazie al quale, tassello per tassello, ricostruisce un universo scomposto e disordinato per renderlo organico e coerente nel tentativo di esorcizzare l’ “incidente” , come se all’ uomo saggio e equilibrato fosse concesso di sfuggire dal caos della casualità. Naturalmente questo non è concesso a nessuno, ma è metaforicamente concesso all’artista di rappresentare tale aspirazione.

NOTA

Il testo è stato successivamente riproposto nei due cataloghi aventi i seguenti riferimenti:

– Iros Marpicati – Claudio Strinati, in «Sweet death», cat. [Venezia, LVI Esposizione Internazionale d’Arte Visive – La Biennale di Venezia – Padiglione Nazionale del Guatemala, 9/5-22/11/2015] a cura di Daniele Radini Tedeschi, pp. 266-268, Editoriale Giorgio Mondadori, febbraio 2015;

– L’arte protegge, in «Iros Marpicati – Misteri di vita e di forme arcane», cat. [mostra personale, Mantova, Casa del Mantegna, 11/2 – 12/3/2017], pp. 9-10 in italiano e pp. 11-12 in inglese, tipografia CPZ (Costa di Mezzate, BG), febbraio 2017.

FEBBRAIO 2015

GIORGIO VULCANO, Iros Marpicati secondo Giorgio Vulcano

Ogni volta che penso a Erto, il mio vecchio paese, quello abbandonato dopo il Vajont, con le vetuste case una attaccata all’altra e le vie di acciottolamento buie e strette, la memoria va verso l’inferno. Il primo ricordo è il tempo degli inferni, la memoria è quella della neve. Notti infinite, silenzi laboriosi, lunghi, pazienti, interrotti solo ogni tanto da spazzi di allegria nelle feste di Natale e capodanno. (Mauro Corona)

“Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”, i versi ermetici di Salvatore Quasimodo, in una delle sue poesie più ricordate, perché dense di autentica e cruda realtà, esprimono la consapevolezza della precarietà della vita che ad un certo punto diventa morte. Non si può parlare di morte in modo superficiale nel mondo contemporaneo, anche quando tutto attorno a noi sembra illuderci c’è il famoso raggio di sole a non tramontare mai. Ne sono testimonianza i luoghi di dolore, in cui la morte e la lacerante drammaticità hanno segnato per sempre l’esistenza di un’intera comunità. In quei luoghi si respira ancora oggi un’atmosfera di grande dignità, quasi, paradossalmente, a non voler turbare l’incoscienza e l’innocenza di chi non ha conosciuto alcuna sofferenza. La poesia di Quasimodo potrebbe essere scelta quale interprete ideale o punto di partenza dell’opera “Madre con bambina (tragedia del Vajont)” di Iros Marpicati. Un’immagine di straordinaria potenza emotiva, presentata in occasione della 56. Biennale di Venezia per il Padiglione Guatemala all’interno del Collettivo La Grande Bouffe, che riporta in superficie il dramma del disastro del Vajont. Era il nove ottobre 1963, quando una immensa frana dal Monte Toc ingoiò un’intera vallata, spianandola e lasciando senza respiro molte vite umane. Marpicati ritrae il volto della morte, fermando l’immagine di una madre e di una figlia sorprese nell’ultimo, fatale respiro. Lo schiantarsi delle rupi, la cataratta di macigni e di terra che travolsero il lago e l’onda spaventosa che ha distrutto i paesi circostanti, si racchiudono in una tragica sequenza che la sensibilità di Marpicati è riuscita a cogliere. Questo non si limita a descrivere solo il doloroso evento, fermo in un passato che può essere solo ricordato, ma concretizza uno scenario portavoce di angosciose realtà, attualizzate e rese universali. Il dipinto si carica di un’intensa forza drammatica, sia nella scelta del non colore, sia nella postura dei due soggetti uniti per antonomasia: madre e figlia. Qui appare il forte contrasto tra l’atteggiamento della madre morta, che si scherma il viso con il braccio, ed il volto della sua creatura, in cui spiccano gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, come in uno spasmo nel momento conclusivo dell’esistenza, nello scontro con la morte. Sorge spontaneo un richiamo alla poesia di Ungaretti Gridasti: soffoco, scritta in occasione della morte del piccolo figlio Antonietto, in cui il poeta rievoca l’atmosfera di straziante dolore e rassegnazione per l’accaduto. Nel quadro di Marpicati, inoltre, la mano in primo piano accentua il tragico momento del trapasso: la madre non ha fatto in tempo a salvare il suo nato, e quel viso abbandonato e nascosto, rafforza l’impotenza di fronte ad una morte che falcia all’improvviso vittime innocenti. Lo sfondo, quasi graffiato, inciso, dilata il dramma di quegli attimi spaventosi e li fa rivivere: lo scorrere dell’acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, il coro di boati, gli stridori e i rimbombi, i cigolii e gli scrosci che si mescolano ai gemiti, ai rantoli e alle invocazioni. Resta solo una valle lacerata, un tessuto umano, sociale e culturale irrimediabilmente compromessi. Poi il silenzio, quel funesto silenzio di quando l’irreparabile è compiuto, il silenzio che pone il suo velo cupo sulle tombe delle innocenti vittime. Ci si può chiedere, come sia possibile comunicare attraverso l’arte certi orrori della Storia, e se non sia il silenzio la risposta più adeguata di fronte ad un evento innominabile e intraducibile che paralizza ed inaridisce la parola. Questo è un dubbio senz’altro legittimo quando l’uomo si sente impotente ad assumere su di sé il male di un dramma collettivo, la cui portata sembra trascendere l’orizzonte della quotidianità. E l’arte, in effetti, può essere appena sufficiente a tradurre l’intensità della sofferenza, la forza dei sentimenti e delle emozioni come pure a districare le nebbie dei tortuosi sentieri della memoria. Ecco allora che, forse più di ogni altra forma di comunicazione, un dipinto, nella sua nuda essenzialità, nella sua pietrosa tensione sa avvicinarsi all’inesprimibile, sporgersi sull’abisso del dolore, di inquietudini e angosce, non già per dare delle risposte o per consolare, ma per far emergere dalle radici dell’essere quei bagliori di speranza che sono l’essenza stessa della vita; in questo lros Marpicati è grande maestro. L’opera del Nostro, creata per onorare la terribile vicenda del Vajont, anche a distanza di tempo assume un ulteriore valore: l’universalità del dolore, rappresentato dal trapasso di una giovane madre e della sua creatura. Contro le leggi di natura, il figlio è morto contemporaneamente a chi lo ha generato; di fronte a ciò, il fruitore non può che provare un senso di angoscia e disperazione per un evento ineluttabile, che forse poteva essere evitato o almeno ridotto. La nostra coscienza sembra essere diventata sorda, cieca e indurita al dolore degli altri, proprio quando dovremmo migliorare l’impegno e la partecipazione. Il terrore ormai fluisce ovunque nel nostro contemporaneo, dalla periferia al centro, aggiungendo maggiore sgomento e senso di insicurezza alle nostre già precarie condizioni esistenziali. Tale superficialità, congiunta all’egoismo, è diventata un alibi di chi pensa solo al suo particulare; a franare così non è solo un intero equilibrio sociale, civile, politico della Terra ma è la nostra vita, l’esistenza, la ragione, occludendoci la vista e mettendo in pericolo un intero sistema di valori condivisi.

lros Marpicati è nato a Ghedi, in provincia di Brescia. Ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo con Achille Funi ed ha cominciato ad esporre nel 1957. In seguito ha conseguito il diploma al Liceo Artistico di Brera. Ha intrapreso gli studi alla Facoltà di Architettura presso l’Università del Politecnico di Milano, che ha abbandonato per dedicarsi alla pittura. Il suo lavoro si muove da anni su un territorio di evocazioni esistenziali. L’artista che opera tra Brescia e Milano, ha allestito diverse personali; tra le più recenti quella alla Fondazione Stelline di Milano nel novembre/dicembre 2010 e al Chiostro del Bramante a Roma nel settembre/ottobre 2011; egli ha inoltre esposto in importanti rassegne, come l’Esposizione Triennale di Arti Visive di Roma nel 2014. Il suo è un percorso artistico congruente e in evoluzione. Marpicati offre un ritratto drammatico della nostra società che minaccia l’integrità dell’uomo, ne racconta il disagio introspettivo, indagando sulle più intime emozioni, sul suo inconscio, tracciandone debolezze, istinti ed impulsi, attraverso rappresentazioni talvolta figurative, talvolta astratte, caratterizzate da una grande forza gestuale. Nelle opere realizzate tra il 1959 e 1961, Marpicati professa una pittura di denuncia coerente, senza scendere a compromessi, esternando con la sua sensibilità il dramma esistenziale dell’essere umano, combattuto tra benessere e coscienza; egli ferma sulla tela, prediligendo toni scuri, forse anche questi simboli di una visione negativa dell’esistenza, immagini di una famiglia che, pur abbrutita dal duro lavoro, conserva una sorta di affetto primitivo e viscerale che la unisce. Ritrae inoltre un’anziana donna che mangia in solitudine, incarnando la fame atavica e la primordiale, drammatica esigenza di nutrimento: ciò riporta alla memoria la miseria e la vita di stenti che Van Gogh ha immortalato nel dipinto I Mangiatori di patate del 1885. L’artista ghedese, nei dipinti realizzati tra gli anni Sessanta e Settanta, descrive il profondo malessere della compagine umana dell’età postindustriale, nel rapporto tra individuo e società; analizza la realtà sia in un’ottica macrosociologica, come un’entità generale che sovrasta l’individuo, sia in una visione microsociologica, che traccia le relazioni tra l’individuo e ambiente, il cui prodotto ha per esito la costruzione della società, non sempre, né per tutti gratificante. Nei suoi quadri egli affronta infatti quello che è il nodo di tutte le questioni della società moderna: l’integrità dell’uomo e ciò che la minaccia. Le sue tele sono lo specchio drammatico di questo conflitto che vede l’uomo aggredito, lacerato, traumatizzato dall’orribile ingranaggio che cresce incessantemente nella nostra civiltà della tecnica, dei consumi, delle programmazioni: un meccanismo senza identità, che va occupando ogni giorno di più gli ultimi spazi di libertà, usurpando ogni margine d’indipendenza. Gli assurdi meccanismi, le gigantesche e complicate viscere metalliche che, nei suoi quadri, afferrano, travolgono e ingoiano l’uomo, sono dunque la rappresentazione emblematica di una condizione reale. Sono macchine labirintiche, misteriose, congegni che nessuno vede o ha realmente voglia di vedere; ma se per un momento si riuscisse ad allontanare l’udito da ogni altro rumore diversivo, forse si potrebbe sentire il rombo cupo e incessante fuori e dentro la nostra anima. In molte sue opere l’essere umano sembra, a prima vista, inesistente, ma osservando più da vicino, ci si accorge di come esso compaia piccolissimo, inserito in architetture irreali e privo di individualità e di espressione. Le sagome umane non hanno identità, camminano in paesaggi inesistenti, tra larghe strade e gigantesche costruzioni dai profili industriali, quasi a cercare il loro percorso smarrito da tempo, forse sin dalla nascita. Come Giovan Battista Piranesi, che nelle sue incisioni inseriva piccole figure umane, evidenziando la profondità del tempo che le rovine annunciavano – dando origine sia all’angoscia sia all’audacia dell’invenzione come unico modo possibile di agire – cosi Marpicati inserisce gli omini, dai profili quasi impercettibili, in luoghi d’ampiezza irreale, denunciando come questi “respirino” appena tra le “rovine” del presente. L’essere umano è visto come l’artefice e la vittima di una crisi della identità individuale, rapportato al mero produrre nel mondo contemporaneo, al mondo dall’industria capitalistica, che riduce il soggetto a semplice forza lavoro e l’oggetto a pura merce. Marpicati individua le ragioni di questa tendenza nel progressivo affermarsi di orientamenti spersonalizzanti della società, che trovano la loro reificazione nella mercificazione dell’arte, nell’instaurarsi del capitale monopolistico (che chiude l’uomo in grandi apparati produttivi anonimi), nell’espandersi della grande industria e nell’uso delle macchine e della tecnologia. L’individuo diventa uno dei tanti operai che contribuisce in modo totalmente anonimo alla sopravvivenza del sistema. È totalmente scomparsa la passione, la volontà, la gioia nella partecipazione alla costruzione del futuro. Si tratta di una realtà esattamente inversa a quella classica, che vedeva l’uomo come creatore del proprio destino e che sfocia dapprima in una sorta di chiusura nella soggettività e poi in una frantumazione totale dell’identità, in uno stato d’animo che non permette all’uomo di individuare la sua vera essenza. Nei suoi dipinti si legge chiaramente un ritmo di linee e di superfici colorate, e nella massa spigolosa delle composizioni, prevale il nero che si alterna a campiture di colori puri. Ciò ricorda Piet Mondrian quando, riducendo la superficie pittorica agli opposti fondamentali colori puri, forme elementari, direzioni orizzontali e verticali – eliminava (apparentemente) ogni somiglianza col mondo degli oggetti familiari, manifestando l’esigenza di liberare l’arte da quella realtà concreta: era la chiara “realizzazione del ritmo liberato e universale, distorto e nascosto nel ritmo individuale della forma laminante”. Nelle opere realizzate tra il 1996 e il 2008 l’artista dipinge contesti astratti, dalle sembianze industriali, ma anche giovani visi e corpi inermi, quasi impotenti di fronte al dolore procurato dalla stessa società: essi giacciono in un sonno forse di morte o di fuga dalla crudele realtà, eppure affascinanti nella loro innocente e indifesa nudità efebica. Ogni corpo ch’egli dipinge, quasi senza colore, è quindi come una vittima sacrificale. La violenza della “civiltà” colpisce, non dà scampo. Quanto ai suoi “nudi” è, invece, la tenerezza che domina, la delicata istanza della passione che pretende il riscatto. Patiti e amorosi, questi giovani sono invasi da un’ebbrezza di morte. È una sfida quella che ci rivolgono. Ed è appunto così che Iros li dipinge. È come se il suo pennello avesse ingrandito i profili degli omini nelle sue opere precedenti, come se fossero stati definiti gradatamente i loro tratti e ricostruite le loro identità. Abbandonati al loro turbamento, essi si offrono all’esausta attenzione di noi spettatori e la stravolgono, rendendoci prigionieri attoniti, smarriti nel gioco di specchi perverso e sublime che Marpicati sa disporre sui suoi cartoni intelati. Di rado nella pittura contemporanea l’eterno scontro ed incontro tra Eros Thanatos, i due lati fatali dell’umanità, si sono potuti specchiare nel medesimo ordine d’immagine così come nel suo caso. E di rado dipinti come questi analizzati, che non potrebbero essere più figurativi e più contemplativi, più “pittorici”, possono apparire così poco iconici, così poco didascalici, esibendo, invece, tutta l’astrattezza dinamica delle figure di un film, tutta la velocità fulminea e l’effimera indeterminatezza dei fotogrammi che scorrono nel fascio luminoso della proiezione. Custodire l’immagine di quei corpi è quindi un impegno da non lasciar cadere. Così Marpicati li conserva per sempre nelle sue immagini: un sudario di luce spietata e dolcissima, spiritata e dolente che avvolge l’angelo decaduto verso un limbo di notte bianca del mondo. Con l’emozione noi possiamo solo guardarli, perché sono il tributo a un incanto che ormai da anni abbiamo perduto. Altri dipinti astratti, invece, evocano taglienti lame, che l’uomo ha usato da sempre e di cui é stato vittima, in una sorta di amore e odio. Come aveva interpretato Eugenio Montale già nel 1925, si avverte con triste meraviglia com’è tutta la vita il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. L’essere umano, che con l’ingegno e la tecnica ha creato la “società delle macchine”, ne diventa ora vittima, vede monopolizzato il suo tempo, fagocitata la sua vita, dispersi i suoi valori e i suoi affetti.

FEBBRAIO 2017

GIANFRANCO FERLISI, Misteri di vita e di forme arcane

«Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
E. Montale

L’architettura di questo mondo contemporaneo, travolto dal vortice di uno sviluppo industriale che ha visto crescere, a dismisura, ciminiere e capannoni, officine e opifici, si materializza davanti ai nostri occhi in un labirintico e straniante scenario, meccanico e artificiale, e dischiude, sullo sfondo di orizzonti mutati, una sorta di lacerazione, di ferita di luce: sfuma così ogni facile riferimento simbolico e si ripropone ossessivamente l’inquietudine dell’uomo, in un ricorrente e montaliano male di vivere.

Poiché, tuttavia, non è mai bene lasciarsi travolgere dalle amarezze letterarie e dal dolente teatro del malessere esistenziale, si rivela quanto mai importante trovare qualche isola felice dell’anima, un seppur provvisorio rifugio. Ebbene, davanti alle opere di Marpicati è possibile respirare, anche sfrontatamente, un salutare e ristoratore ossigeno d’idee d’alta quota e percepire scenari di misteriosa bellezza, alfabeti e costruzioni enigmatiche: dimensioni oniriche che si specchiano su altezze quasi salvifiche. Ci si propone una pittura raffinatissima, che si interroga, innanzitutto, sulle possibilità del mezzo pittorico, per poi indagare sui significati còlti nella vita, sui sentimenti che toccano gli ambienti e i paesaggi nell’orizzonte della contemporaneità. Gli spazi della ricerca di Marpicati sono dunque le periferie della civiltà. E non si tratta solamente di luoghi che circoscrivono una realtà degradata e un’umanità dileguata. Non sono le stalle di Augìa ripulite faticosamente da Ercole, correlativo oggettivo, sempre di montaliana memoria, di un contesto in cui l’uomo passa da un mondo antico considerato obsoleto agli orizzonti ammiccanti della società di massa, incamminandosi in inospitali terre di nessuno.

Le campiture monocrome dell’artista, questa molteplicità di ingranaggi che si fanno paesaggio onirico e visionario, la luce che filtra tra massicce fabbriche di potere (forse di morte), i paesaggi, fatti di materia cerebrale, offrono ancora una speranza di salvezza: si palesa infatti la rimembranza di una umanità felice, di una perduta età dell’oro, nell’apparizione di efebici corpi umani, impronte necessarie di una mano che muove i confini del suo desiderio con una contraddittoria visione apollinea; traspare, malgrado tutto, un’attesa nei loro gemiti da sonnambuli, intirizziti da impulsi cosmici, nella manifesta bellezza di anatomie da preraffaellita, nel fascino della loro giovinezza ignuda e angelica, nella loro presenza evanescente, carica di eros.

E la speranza di un possibile riscatto si palesa anche nell’apparizione di lillipuziane silhouette, figurine monocrome, smarrite come insetti dalle ali recise, che contrastano sullo sfondo di un universo carico di energie nascoste, di forze celate nella densità semplice dei cromatismi, nell’uso costante dei colori primari, nell’essenzialità della scelta luministica, nel viatico di suoni arcani e musicali che il colore, steso à plat, racchiuso in contorni netti e definiti, ha ossificato sulla tela, Perché la vita e l’umanità, come capita ad una sotterranea falda d’acqua, emergono d’improvviso a irrorare e a rialimentare il mondo e il suo deserto di solitudine.

Mi trovo perciò a procedere in un paesaggio inospite, in uno straniato e straniante spazio suburbano, periferico e industriale, e nelle cornici di una sorta di astrazione geometrica, «ché la diritta via era smarrita». Il camminare libero e assorto, tra natura e arte, diventa impervio: lo sguardo si inoltra in immagini eruttate da un mondo interiore, agitato da elementi che non sono immediatamente decifrabili.

Dove è finita la bellezza del creato che un tempo assecondava il naturalismo? Che ne è stata della fiducia futuristica nel progresso? Il paesaggio di Marpicati è davanti a noi e non è immanente né trascendente; la sua genesi è solo artistica: è una creazione del pensiero, della cultura, di un confronto serrato con alcune delle linee forti dell’arte italiana e internazionale tra Ventesimo e Ventunesimo secolo e, soprattutto, del suo fattivo lungo e costante operare. E in ogni espressione della sua pittura permane qualcosa di visionario, una figurazione occulta che si muove sul crinale incerto del suo totale azzeramento, sul confine di una iconoclastia d’altri tempi.

La pittura di lros Marpicati predilige dunque un piacere cerebrale quasi morboso, un procedere immaginoso e amaramente allucinato. Si vedano, per esempio, gli aggressivi marchingegni di forme, per tanti versi geometriche, nelle opere intitolate «frammenti di paesaggio» e realizzate tra il 2013 e il 2014: sembrano strutture aggressive, tutte volte ad esplorare, a loro modo, la via maestra dell’astrazione più radicale, da Atanasio Soldati ad Alberto Magnelli sino a lambire i turgidi approdi di Robert Motherwell. Nelle forme essenzializzate alcune sagome sembrano giocare con geometrie di fucili, di armi a ruota, di cani e di ganasce, di grilletti e di ruote d’acciaio, di canne e di creste di revolver.

L’artista e la macchina: la tirannia tecnologica si è trasformata in incubo, con sagome minacciose di congegni resi a colori piatti e primari. E il pittore, divenuto eroe mitologico, sfida il grande caos dell’universo della contemporaneità, dialoga con le sue forze silenziose e potenti, con le sue affilate geometrie, con il loro implacabile e indecifrabile potere.

E dunque tutte le geometrie di Iros – il loro strutturarsi in lunghe lame taglienti, in strette balaustre che si affacciano sul vuoto, in compatte fortezze nere che terminano con spigoli acuminati – si trasformano in pensiero metafisico, in riflessione sui pericoli di una tecnologia invadente, in dichiarata riflessione sul rapporto uomo/ambiente.

Ma il fascino di questa nuova mostra risiede anche nel viaggio antologico nella storia artistica del pittore, dai primi lavori della fine degli anni Sessanta, sino a oggi. E in questo viaggio nel mondo di lros Marpicati si comprende come l’artista abbia sempre cercato di intercettare le origini arcaiche dello sviluppo della civiltà e di creare ambiti di congiunzione simbolica tra il mondo terrestre e arcadico e la tecnologia.

Maestro del segno e del disegno lo ha definito Luca Beatrice, per oggettivare, in una espressione icastica, un giudizio positivo su questo artista potente, dolce e determinato, un artista – poeta che, nelle più recenti suggestive opere, si sofferma su luoghi, creati dall’uomo, in cui emergono le tracce di un’inconciliabile frattura fra l’individuo ideatore e il mondo realizzato. E la pittura, che ha percorso compiutamente i sentieri del malessere esistenziale, trova qui un trait d’union perfetto con le intense pagine di quel realismo esistenziale da cui era iniziata tutta la sua avventura creativa. Marpicati, consapevole che la conoscenza umana non può raggiungere l’assoluto nemmeno tramite la più ispirata pittura, giunge ora ad immagini costruite da flussi emozionali, perfette nel rendere la condizione esistenziale dell’uomo novecentesco: è il punto d’arrivo in cui intercetta la disarmonia della realtà.

E alla fine restano i blu del cielo e i neri di tenebra e i bianchi di piombo e i rossi scarlatti come bandiere, e i gialli minerali, in un processo di denaturalizzazione della materia, di astrazione dal colore tonale, nella ricerca dello stato più puro possibile, quello del colore primario. E restano arcane le sagome delle forme cromatiche a dare consistenza a matasse struttive in cui il paesaggio si carica di tutta la sua forza: un paesaggio che narra dell’urgenza espressiva, del flusso vitale, del vigore di un impulso originario che vuole cogliere, nella sua snudata e complessa traducibilità esteriore, l’emozione, quella che appartiene ad un campo energetico arcano che tutto collega. La necessità di vivere nel mondo accettando dignitosamente la propria fragilità produce alla fine uno spettacolo di flagrante meraviglia e di ispirato stupore per gli occhi: il vedere diventa commozione, indotta dalla molteplicità dei significati e dalle maglie plurigenerative dell’alfabeto dell’arte, velate nella loro estetica alterità.

2017

FAUSTO LORENZI, Immagini dalla fine dell’umanità – Opere di Iros Marpicati  

Iros Marpicati tra gli anni Cinquanta e Sessanta era emerso con veemenza sulla scena dell’arte lombarda per la lancinante lucidità visiva, che era specchio di un’agra condizione umana, tra racconto civile e protesta esistenziale. Aveva incominciato, lui che veniva dalla Bassa, accompagnando i contadini in città come capri espiatori, a un rito sacrificale di disagio, sradicamento, alienazione. Dal giudizio aspro e urticante sulla brutalità del reale, dal suo non concedere scampo all’inerzia, alla solitudine e al dolore emergeva un lirismo straziato. La natura di immobilità schiacciante non offriva consolazione.

Marpicati fondeva nella sua ricerca temi del realismo esistenziale, dell’umanità umiliata e offesa, tra gelsi sradicati e madri e contadini sconfitti ai margini della storia, tra lamiere di incidenti di strada e di fabbrica e luoghi di allucinazione meccanica, e rimeditazioni di linguaggi dell’espressionismo astratto americano da Kline a Motherwell, ma anche di europei come Soulages e Hartung in vampate scure e segni violenti e stridenti. Le forme piegavano spesso al tragico e al grottesco, tra sferzata delle coscienze e indulgente compassione per gli ignari e inermi, nel conflitto tra grandi masse aggettanti dense e cupe e sfondi graffiti da linee secche e scarne di tronchi, arbusti, gelsi e girasoli carbonizzati.

Ebbe grande attenzione da tutta la critica nazionale, da Valsecchi a De Micheli, da Kaisserlian a Bruno. Nel 1996 dedicò un ciclo al disastro immane della diga del Vajont, concentrato con forza epica sul dolore delle popolazioni travolte dall’acqua, potentemente e drammaticamente chiaroscurato, cinematografico nel bianconero d’ampio respiro, il disegno di complessità pittorica, ad adombrare una intensa, icastica gestualità plastica, ma anche un tragico scacco. Da allora, un doloroso autoesilio dalla ribalta, per vent’anni: solo rare cartelle di litografie, serigrafie, presenze sporadiche in mostre a tema.

Quando nella seconda metà degli anni Ottanta Marpicati è ricomparso sulla scena espositiva, subito riaccolto dall’attenzione acuta della critica nazionale (De Micheli, Bossaglia, Cortenova, Caramel, Pontiggia, Strinati, D’Amico, Beatrice), ha disteso sul tavolo anatomico di una stremata, ultima pietà un giovane dormiente il cui corpo ignudo resisteva perlaceo, quasi senza colore, in una sua impenetrabile bellezza, in una strenua dolcezza di inerme vittima sacrificale, minacciato e stretto come in un trittico sacro da quinte metalliche segmentate e aguzze.

Quelle quinte sono poi diventate paesaggi taglienti e crudeli – “inospiti” li ha titolati l’autore – della modernità meccanica, madrina indifferente al destino di un uomo sperduto nei suoi ingranaggi, ridotto a sagoma minuscola o definitivamente espulso: paesaggi talora ridotti al puro contrasto tra il bianco e il nero, frantumati in una spazialità nevrotica e assurda, di fissità glaciale, ma invasa da un’aura di inquietudine visionaria e di profonda malinconia, come fossero frammenti di terre emerse alla deriva verso la fine dell’umanità, abbandonati nell’abbraccio dell’infinita vanità del tutto. Un’algida tessitura di assonanze-dissonanze ha governato come in una partitura sinfonica cartoni intelaiati dai colori di sonorità percussive e martellanti e altri di echi estenuati e silenti, poi di tersa e dolente elegia davanti all’irreparabile, eppure partecipe di una solidarietà consonante con gli uomini e i ritmi del mondo, espressa in una sfinita dolcezza d’incurabile nostalgia.

NOVEMBRE 2017

ALBERTO DAMBRUOSO, Costrizione dell’essere e suo riscatto nella pittura di Marpicati 

Ansia, inquietudine, minaccia, tragedia, ma anche denuncia, monito, speranza, incorruttibilità, sono tutti temi compresenti sullo stesso piano di rappresentazione nelle opere di Iros Marpicati. Quella che emerge dai suoi lavori, realizzati a partire dai primi anni Sessanta e ancora oggi al centro del suo interesse espressivo, è un’umanità spoglia ed indifesa, colta nel momento della costrizione tra le maglie di architetture appuntite e taglienti, specchio di una società in cui l’essere è sempre più schiacciato fino all’annullamento di se stesso. In uno dei pochi commenti rilasciati sulla sua poetica a metà degli anni Sessanta l’artista dichiarava: “L’uomo, il dramma dell’uomo, la sua lotta antica contro le forze, contro i mostri della terra, la sua lotta oggi contro i mostri della società tecnologica: è questo il centro di ogni mia aspirazione e di ogni mia ricerca, anche stilistica e formale. Un dramma, una lotta che non vorrebbero essere intesi fatalisticamente, al modo romantico, ma in senso attivo, di stimolo a una presa di coscienza, a una solidarietà, a una partecipazione alla comune battaglia”. Da queste parole emerge in sostanza il pensiero di un artista che cerca di risvegliare le coscienze sopite attraverso l’inserimento all’interno delle proprie opere di alcuni dispositivi che portano al riscatto dell’individuo. Ecco allora il ricorso a corpi di giovani nudi colti nel momento dell’abbandono al sonno, simboli di un’umanità ancora integra che non ha ancora subìto la violenza e il condizionamento esterno imposto dalla società tecnologica. Queste figure svestite hanno a mio parere la stessa valenza simbolica dei nudi espressionisti del primo Novecento, rappresentati dalla maggior parte degli artisti del gruppo Die Brucke. Schmidt – Rottluff, Kirchner, Heckel individuavano proprio nella purezza incontaminata della nuda figura umana lo spirito libero, non ancora assoggettato alla società borghese di quei tempi, ben rappresentata nei suoi vizi e nelle sue mollezze, qualche anno dopo dal gruppo della Nuova oggettività. Dal punto di vista pittorico, le figure dipinte da Marpicati sembrano più appartenere al mondo della fotografia che non a quello della pittura. Merito di una tecnica raffinatissima ottenuta mediante smalti e spray e grazie ad una perizia quasi fiamminga per i particolari. I corpi di giovani che campeggiano nelle sue tele sono come dei santi rinascimentali colti nel momento dell’estasi prima del martirio o nell’istante della rivelazione. Le architetture, che come gabbie costringono le figure all’interno di uno spazio limitato in cui è quasi impossibile muoversi, contrastano con i loro neri e grigi cupi il biancore delle figure. Architetture industriali e urbane dalle forme aguzze e spigolose di sua invenzione incombono minacciose sulle figure indifese, tuttavia senza arrivare a penetrarle. Gli individui restano in vita perché Marpicati è attaccato alla vita e cerca in ogni dipinto di opporre una resistenza al buio della ragione. Nella pittura degli ultimi anni la figura è venuta meno lasciando spazio ai soli paesaggi urbani. Sono i paesaggi della pianura padana che l’artista ha visto trasformare nel corso degli anni. Un tempo intorno alla sua città natale (Ghedi, nel bresciano) non vi erano che distese di campi a perdita d’occhio. Con lo spopolamento delle campagne, iniziato nel secondo dopoguerra, e il graduale abbandono dell’economia agricola a vantaggio di quella industriale, il paesaggio, soprattutto quello di queste zone del nord Italia, ha in pochi anni cambiato radicalmente aspetto. Una selva infinita di capannoni industriali e di fabbriche hanno modificato per sempre quei luoghi. Là dove un tempo pulsavano i cuori di animali al pascolo e di contadini al lavoro tra vigneti e campi di grano e di frumento oggi batte quello freddo delle macchine industriali. Sono divenuti paesaggi ostili, come recitano i titoli di molte opere di questa serie. Dopo aver dedicato per quasi cinquant’anni le sue urgenze espressive all’uomo, aggredito da una società che di fatto lo ha reso schiavo di se stesso, in queste ultime opere Marpicati ha avvertito la necessità di estendere il suo sguardo critico anche all’ambiente esterno, sempre nel tentativo di far innescare nello spettatore una presa di coscienza della realtà che gli sta intorno. Rimangono inoltre immutate in queste opere anche quell’insieme di qualità formali e stilistiche che hanno reso tutta l’opera fin qui elaborata da Marpicati un unicum nel panorama artistico nazionale ed internazionale. La maniera di dipingere i nudi, l’espressione dei volti, ma anche il modo di elaborare il dipinto ricorrendo sia al registro figurativo sia a quello astratto, uniti tra loro in un armonico connubio, sono il tratto distintivo di una ricerca portata avanti all’insegna dell’indipendenza e della coerenza.